Note per una storia dei bovini del ceppo Calabrese della razza Podolica (sec. XVI-XVII)

podolica calabrese
Vacche di razza Podolica con i loro vitelli tra i boschi della Sila (foto Archivio fotografico ARSAC).

Secondo la teoria più accreditata, i bovini attuali deriverebbero “da 4 o 5 ceppi estinti”, dai quali “per evoluzione, incrocio e selezione”, si sarebbero formate tutte le razze oggi allevate nel mondo. Da uno di questi progenitori, il Bos primigenium, caratterizzato da grande mole, grandi corna a sezione circolare e sincipite tipicamente rettilineo nel maschio, si ritiene che siano derivate le razze a mantello grigio dell’Europa sud-orientale del c.d. “ceppo podolico”, a cui appartengono le diverse razze indigene italiane, tra cui la Podolica.

Allevata prevalentemente nelle aree interne dell’Italia centrale e meridionale, “sia per caratteri morfologici che per la precocità dello sviluppo”, la razza Podolica risulta attualmente distinta in alcuni ceppi, caratteristici dei diversi ambienti dove è oggi presente, tra cui quello Calabrese.[i]

Graffito datato dagli archeologi al Paleolitico superiore esistente nella “grotta del Romito” in loc. Nuppolara del comune di Papasidero (CS).

Antichi allevatori

Le informazioni di cui disponiamo, testimoniano chiaramente che l’allevamento dei bovini in Calabria rappresentò un’attività molto importante già prima della fondazione delle prime città da parte dei coloni greci, tra la metà e la fine del sec. VIII a. C.

Lo evidenziano bene i miti di fondazione di Crotone, secondo i quali la nascita della città sarebbe stata collegata al passaggio di Ercole, impegnato nella sua decima fatica, al tempo in cui conduceva la mandria dei buoi di Gerione lungo la penisola italiana. Sarebbe stato infatti proprio il tentativo di Lacinio di rubare questi animali che, accidentalmente, avrebbe condotto all’uccisione di Croton da parte dell’eroe, il quale avrebbe poi predetto la nascita della città sulla tomba dell’ucciso.[ii] Un racconto analogo a quello che avrebbe trovato protagonisti Ercole, Latino e Locro, in occasione della fondazione di Locri,[iii] molto simile anche all’episodio che a Roma, avrebbe visto l’eroe uccidere Caco e fondare il culto dell’Ara Maxima nel foro Boario.

Il passaggio da una fase prevalentemente legata ad una economia pastorale, verso una dimensione di accumulo e di scambio delle risorse concentrate nei centri urbani, spiega la nascita di queste tradizioni. Nel caso di Crotone, tale trasformazione è descritta attraverso un racconto che presenta il territorio qualificandolo come il bosco di Hera,[iv] luogo “sacro per tutte le genti della regione”[v] che, regolando gli interessi commerciali della polis e quelli delle antiche popolazioni dell’interno[vi] dedite alla pastorizia,[vii] attraverso il diritto di asilo garantito dalla divinità poliade della città, continuò ad assicurare il soddisfacimento delle esigenze stagionali di pascolo del bestiame.

Dopo avergli ucciso il cane Ortro e il pastore Euritione, Ercole sconfigge Gerione “tricefalo”, gli cattura i buoi e compie la sua decima fatica.

Animali da lavoro

Secondo Oreste Dito, anche durante il Medioevo la Calabria avrebbe avuto “un vero e proprio primato per la razza bovina”, come starebbe a testimoniare un episodio relativo alle nozze di Beatrice, figlia del re Carlo d’Angiò, con Filippo, primogenito di Baldovino imperatore di Costantinopoli, quando, dovendo ogni provincia del regno mandare il proprio dono, il giustiziere di Calabria avrebbe inviato per l’occasione “cento bovi grassi e giovani.”[viii]

La difficile situazione vissuta dagli allevamenti bovini in Calabria agli inizi del dominio angioino, legata allo stato di conflitto che caratterizzerà tutta la seconda metà del secolo XIII, sono invece evidenziate dai documenti vaticani, i quali c’informano che, riguardo agli approvvigionamenti di bestiame della Curia Apostolica, per non aggravare la già difficile situazione, il 13 aprile 1289 si dava mandato a Gerardo vescovo “Sabinensi”, costituito baiulo del regno di Sicilia da parte della Chiesa romana, di sospendere l’acquisto e l’estrazione dei previsti quattrocento buoi dalla Calabria che, a causa della guerra, si trovava esausta, considerato infatti che, per effettuare la semina, si era dovuto provvedere utilizzando in soccorso i buoi della Puglia.[ix]

Questo documento vaticano che sottolinea, in ogni caso, la particolare importanza dell’allevamento bovino nella regione, evidenzia anche il ruolo fondamentale del bestiame allevato nel rendere possibile i lavori agricoli e, più in generale, il lavoro, che dobbiamo ritenere l’attitudine principale di questi grandi animali, verso cui è stata concentrata l’attenzione delle antiche popolazioni calabresi che ne hanno curato la selezione nel tempo.

Seppure infatti il loro latte consentiva di ottenere formaggi quali i “raschi” ed i pregiati “casicavalli”,[x] e la loro pelle (“coiro”) aveva un valore consistente (5 ducati),[xi] la destinazione principale del bestiame bovino rimaneva comunque il lavoro agricolo perché, ancora in età moderna, prima della meccanizzazione, nessuna attività legata alla “massaria” poteva essere realizzata senza ricorrere al lavoro dei buoi, valutato 5 carlini alla giornata per ogni “paricchio”,[xii] la cui buona lena, in ogni caso, serviva anche per ogni altra attività di trasporto e traino pesante, come richiedevano, solo per fare qualche esempio, l’industria del legname[xiii] e il cantiere edile.[xiv]

Sottolinea ciò anche una importante particolarità: quella che vedeva il bestiame bovino non sottoposto al pagamento della decima dovuta ai vescovi diocesani,[xv] a differenza di quello ovino. Tale particolarità trovava giustificazione nel fatto che, l’allevamento degli ovini consentiva di ottenere prodotti commerciali quali il latte, la lana, gli agnelli, etc., mentre quello dei bovini era finalizzato principalmente a fornire lavoro, sul quale, invece, gravavano i diritti parrocchiali che, ogni anno, consentivano al parroco di esigere da ogni “massaro”, un tomolo del proprio raccolto per ogni paio di buoi utilizzato nella semina di qualunque specie.[xvi]

Dobbiamo ritenere che a selezionare animali dotati della forza sufficiente per tale impiego e della rusticità necessaria per valorizzare le risorse naturali disponibili, come le foglie delle pinete,[xvii] debba essere stato, necessariamente, l’ambiente nel quale questi vissero e prosperarono. Un ambiente particolarmente favorevole a questo riguardo, considerato che, proprio l’integrazione tra l’allevamento del bestiame e la coltura cerealicola, consentita dalla facilità con cui è possibile raggiungere l’altipiano silano dalla costa ionica, determinò “il vivere nomade di nostre bestie boccine”,[xviii] e consentì lo sviluppo di una economia importante in tutto il comprensorio crotonese basata sul binomio grano-formaggio, capace di trovare sbocco nelle principali piazze mercantili, dentro e fuori del regno.[xix]

Buoi di razza Podolica calabrese impegnati nell’aratura dei campi (foto Archivio fotografico ARSAC).
“Carro calabrese” trainato dai buoi.

La Soccida

Si rifanno allo specifico impiego lavorativo del bestiame bovino, ed al carattere “nomade” della forma di allevamento adottata, anche gli antichi usi che regolavano i rapporti tra “i Cosentini” e coloro che abitavano le pianure del Marchesato di Crotone.

Anche se in genere il padrone degli animali preferiva godere interamente del loro “frutto”, in alcuni casi, invece, sappiamo che poteva affidarli in rapporto di Soccida, dandoli “in guadagno”[xx] ad un altro, che s’impegnava a custodirli “a mita”,[xxi] ovvero “in medietatem lucri”.[xxii]

Allo scopo di chiarire i termini che potevano entrare in questo genere di “pacto”, attraverso cui spesso sono posti in evidenza i forti legami che esistettero anticamente tra le popolazioni del Crotonese a quelle del Cosentino, riportiamo di seguito il contenuto di due atti stipulati in Policastro.

06 febbraio 1625. Davanti al notaro comparivano i coniugi Joannes Aloisio Luchetta e Polita Surrenti di Policastro, assieme a Fran.co delle Piane del casale delle “planis baglive figline”, pertinenza della città di Cosenza, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra il detto Fran.co e Caterina Luchetta figlia di detti coniugi.

L’accordo tra le parti prevedevano che la dote della sposa fosse costituita da 250 ducati. Con questo denaro il futuro sposo s’impegnava a comprare tanto “bestiame bovini per fatigarsine”, in maniera che “li detti bovi esso fran.co se le possa portare alle sile di Cosenza questa statura p.a futura, et il lucro che farà sia integro di esso sposo; Verum che Calato che sarà questo mese di settembre detti bovi detto Fran.co li industri, et fatighi tanto a massaria quanto a qualsivoglia altro uso, et se intendano tenuti à mita, et alle spese habbino di contribuire per mita di detto tempo inansi Cioe esso Fran.co mette la persona sua, et detto Gio: luise, detti bovi, quale patto se intenda durare insino a quel giorno, che essi sposi si affideranno, et si concluderà detto matrimonio per verba de p(rese)nti.”[xxiii]

18 febbraio 1636. A fare inizio da questa data, Andrea Caccurio di Policastro donava “in guadagno” a Tiberio Grigoraci di Policastro, per lo spazio di anni 6, le seguenti “Vacche” del Cl.o Fran.co Caccurio suo fratello: una di nome “Regina con uno jenco appresso dell’anno in dui”, una di nome “donnicella” con un “vitello appresso” e una di nome “Marinella”. Il detto Tiberio si obbligava a “guardarli et Costodirli” a proprie spese, pagando la metà dell’erba “per Commodo, et utile” di detti animali. Allo stesso modo si stabiliva che, in futuro, sarebbe stato diviso “lo frutto di esse tanto di lavorare quanto si mongissero lo frutto vada in comune, et cossi anco ogni altra Cosa, che si guadagnassi esso tiberio con dette Vacche.”

Le vacche erano state apprezzate per il valore di ducati 40 da parte dell’arbitro Gianni Poerio eletto dalle parti. Alla fine dei 6 anni, detto Cl.o Fran.co avrebbe dovuto ricevere i predetti ducati 40, mentre il restante sarebbe stato diviso egualmente tra le parti. Nel caso che qualche capo fosse morto o altro, il danno sarebbe stato comune, ma se ciò fosse avvenuto, invece, per negligenza del detto Tiberio che “non li guardassi, et Custodissi bene”, l’onere sarebbe stato tutto a suo carico. Si pattuiva anche che “fando maijsi con dette vacche”, ovvero impiegandole nei lavori campestri, il guadagno sarebbe stato diviso ugualmente tra le parti. Al contratto si univa anche un “bove” del detto Cl.o Fran.co per il prezzo di ducati 12, ma si specificava che, nel caso fosse stato venduto in occasione della prossima fiera di “Santo Gianni delli agli”, il ricavato sarebbe stato tutto di detto Cl.o Fran.co.[xxiv]

Mandriani cosentini verso la fine dell’Ottocento.

Vaccari e capimadria

Rispetto a questi casi meno frequenti, l’uso più consolidato nel Crotonese, era quello che vedeva il padrone affidare la propria “murra”[xxv] di animali alla cura di “vaccari” e di “capomandria” cosentini, successivamente detti “caporali”, che li accudivano sia “ai monti” che “al piano” in ragione di una paga, come è rimasto in uso fino ad epoca recente.[xxvi] Questi mandriani che non erano “spesati”, ossia che non ricevevano “vitto” dal loro padrone,[xxvii] alla metà dell’Ottocento risultavano retribuiti annualmente con “dieci tomoli di frumentone, e due di grano”, più “cinque lire al mese ed un paio di zampitte o calandrelle”,[xxviii] le tipiche calzature pastorali.

Durante il Medioevo si riteneva che quattro di questi mandriani (“custodes”), detti “conduttori” nel Seicento,[xxix] fossero sufficienti per governare al pascolo 300 vacche, di cui uno addetto alla cura dei prodotti (“reditu”), sia per quanto riguardava la copertura delle vacche, da marzo per tutto il mese di maggio, sia per la loro mungitura, che durava fino a circa due mesi prima del parto, termine dopo il quale gli animali entravano in asciutta.[xxx]

In questo caso possiamo constatate come i tempi della transumanza fossero perfettamente sincroni rispetto al ciclo riproduttivo degli animali, in relazione alle opportunità offerte loro dall’ambiente naturale.  Considerati, infatti, l’epoca in cui avveniva la copertura e i nove mesi di gravidanza, i nuovi nati venivano alla luce a cavallo del nuovo anno, periodo in cui le mandrie avevano ormai abbandonato l’alpeggio ed erano ritornate a svernare in pianura.[xxxi]

Durante il primo anno di vita, in cui erano lasciati a seguito delle loro madri, gli “allevi” sia “mascoli” che “femmine”,[xxxii] erano detti “vitelli”[xxxiii] mentre, durante il loro secondo anno, quando erano “dell’anno insu”,[xxxiv] ovvero “dell’anno in dui”,[xxxv] erano detti “vitellazzi” o “vitellazze”,[xxxvi] oppure anche solo “vitellazzos” “tra mascoli et femine”.[xxxvii] In alcuni casi troviamo che, già durante il loro secondo anno di vita,[xxxviii] questi soggetti risultavano definiti giovenchi  (“jovencos”/”jovencas”, “jenchi”/ “jenche”, “jencaruni”/“jencharelle”), mentre è documentata l’espressione “jenca seu vitellazza”.[xxxix] Più pertinentemente, invece, rileviamo che il termine giovenchi era usato per individuare i soggetti a cominciare “delli due anni”[xl] compiuti, ovvero “delli due anni in tre”,[xli] quando questi avevano raggiunto la maturità sessuale, ritrovandosi in uso per quelli “di anni tre in quattro”[xlii] e, finanche, per quelli “delli quattro Anni in cinque”.[xliii] Le femmine infatti, divenivano feconde solo dopo i due anni,[xliv] mentre i maschi risultano già qualificati tori “delli tre anni in qua”.[xlv]

Una “murra” di vacche podoliche calabresi con i loro vitelli al pascolo tra le colline del Marchesato di Crotone (foto Archivio fotografico ARSAC).

Un capitale rilevante

In considerazione della loro particolare importanza nell’economia del tempo, i bovini si ritrovano spesso negli atti contenuti nei protocolli notarili dei sec. XVI-XVII, dove li troviamo ricorrentemente nella dote delle spose, in occasione del loro matrimonio,[xlvi] ed in quella fornita ai clerici per poter ascendere agli ordini sacerdotali,[xlvii] come anche in occasione di compravendite,[xlviii] dove non mancano compratori provenienti da fuori regione,[xlix] quando, a volte, sono utilizzati come pagamento al posto del denaro contante.[l]

Notizie sul loro valore di mercato ricorrono fin dal Medioevo. Un atto del 1133 riporta che il valore di alcuni buoi era compreso tra 2 ½ e 3 νoμισματα (“numismatis”)[li] mentre, agli inizi del secolo successivo, il valore di “bovem unum domesticum” risultava di 30 tareni e 20 tareni era quello di “iuvencum unum”.[lii] (1 oncia = 30 tareni).

Agli inizi del Trecento un “bove domito” era valutato ancora 1 oncia, lo stesso valore che aveva un giovenco selvaggio (“indomito”) di tre anni, oppure una “vacca”, computando nel valore di quest’ultima anche quello del suo vitello. Una vacca senza vitello, invece, era valutata 22 tareni. Un giovenco di un anno valeva 10 tareni, il doppio al compimento dei due anni, mentre la giovenca di un anno era valutata 7 tareni, 15 al compimento dei due anni.

Valori simili avevano anche i bufali, con i quali si sfruttavano le aree pascolative più pantanose.[liii] Un “bubalo” era valutato 1 oncia e 10 tareni, mentre 1 oncia si valutava una bufala gravida. Un bufalo di un anno era valutato 15 tareni, mentre 25 tareni valeva una bufala di due anni.[liv]

Alla metà del Cinquecento, il prezzo di un bue variava tra i 10 e i 15 ducati, come testimoniano alcuni atti notarili[lv] e soprattutto, i conti della regia fabbrica di Crotone (1541-1542), dove risultano annotati gli acquisti di alcuni capi provenienti da diversi luoghi del Marchesato, comprati sia alla fiera di Molerà (Roccabernarda),[lvi] che in altre occasioni.[lvii]

Durante la prima metà del Seicento, invece, in prezzo dei “bovi aratorii”,[lviii] “domiti”,[lix] oppure dei giovenchi (“jenchi”),[lx] risultava un po’ più alto, in media tra i 15 e i 18 ducati, oscillando comunque da un minimo di 12 ed un massimo di 20-22 ducati. Anche se la notizia ricorre più raramente nei documenti, il valore di un toro addetto alla monta, ovvero di un “toro delli tre anni in qua”,[lxi] oppure di un “tauro grosso”,[lxii] o di un “tauriglione”,[lxiii] si aggirava attorno alle stesse cifre riferite nel caso di un bue.[lxiv]

Sia che fossero “domiti”,[lxv] ossia “domesticas seu aratorias”,[lxvi] utilizzate cioè per i lavori agricoli, oppure “selvaggie”,[lxvii] ossia “scerrate”,[lxviii] il valore delle “vacche figliate”, o “fetas”,[lxix] ossia “con l’allevo di apresso”,[lxx] risultava mediamente tra i 12 e i 15 ducati, mentre, il valore delle “Baccas Stirpas”[lxxi] o “Vacche stirpe”[lxxii] (non figliate), era comprensibilmente inferiore a quello delle “Baccas cum filijs”[lxxiii] o “Vaccas cum foentibus eas sequentibus”,[lxxiv] e si aggirava tra i 9 e 10 ducati. Un po’ più alto, invece, era il valore delle vacche “annicchiariche”,[lxxv] considerato che queste avevano “l’anicchi apresso”,[lxxvi] ossia il proprio figlio che aveva compiuto l’anno. Le “Jenche” erano valutate 8 ducati, mentre 5 ducati si valutavano le “vitellazze”.

Alla fine del Seicento il prezzo di un bue o di un “mazzone”[lxxvii] (bue vecchio),[lxxviii] continuava ad aggirarsi sui valori del passato,[lxxix] come risulta anche nel caso delle altre categorie di “animali Vaccini”.[lxxx]  A quel tempo, per valutare il bestiame, in alcuni casi si poteva usare come termine di paragone il valore di un paio di vacche “annicchiariche” (36 ducati): tre vacche “stirpe”, o tre “jenche grosse” di due anni in tre, valevano un paio di vacche “annicchiariche”, mentre raggiungevano lo stesso valore quattro “jencarelle” di un anno in due.[lxxxi]

Vacche di razza Podolica calabrese all’abbeverata lungo il corso del fiume Tacina (foto di Daddo Scarpino).

Le cure del miniscalco

Considerato il valore di questi animali, a volte i documenti menzionano le cure prestate loro. Ne sono esempio quelle documentate alla metà del Cinquecento, durante i lavori di fortificazione della città e del castello di Crotone, quando spesso si acquistò “insuncza” (grasso) per ungere i buoi malati,[lxxxii] assieme al vino e all’aceto usati come “medicina” per fare “la lavanda”[lxxxiii] alle loro ferite, a volte inferte dai lupi,[lxxxiv] contro i quali non bastavano la vigilanza dei “garczoni”[lxxxv] e la guardia dei cani.[lxxxvi]

In altri casi poteva intervenire il “miniscarco”, figura di mastro esperto e pratico nell’arte della “miniscalcheria”,[lxxxvii] anche se i rimedi da poter mettere in campo a quel tempo, si limitavano nell’imporre all’animale il segno della croce e poco più.

Come ci testimonia un atto del 21 aprile 1584 stipulato in Cirò. Quel giorno, a mastro Horatio Benedicto di Cirò, era stato portato un bue da parte del nobile Joannes An.to Milito, affinchè “l’havesse medicato come che è prattico de miniscalcheria”. Il detto miniscalco “reconoscendo detto boe infermissimo”, “subito lo sagnò et li dette lo foco”, ma il quarto giorno seguente la bestia morì. Fu così che il “bocciero” Colamatteo Coluccia “lo scorticò”, “aperendolo” in presenza di molti testimoni, tra cui il detto mastro Horatio, che assistette “per vedere che infirmità era del detto boe”, assieme all’altro miniscalco mastro Scipione Tegano, trovando “che dicto boe haveva sopra la melza una postema vecchia et per lo feto grande de detta postema se ne fugirono tutti dal luogo, che non ci potevano resistere”.[lxxxviii]

Vacche di razza Podolica calabrese con i loro vitelli sull’altopiano silano (foto Archivio fotografico ARSAC).

I caratteri della razza

Alcuni caratteri morfologici appartenenti ai bovini attualmente allevati in Calabria, emergono già tra quelli rappresentati in antiche raffigurazioni, come testimoniano, ad esempio, le monete di Sibari e Thurii e alcuni ritrovamenti effettuati in questa località, che compaiono anche su tante altre monete greche.

In alto, statere di Sibari (sec. VI a.C.). In basso, distatere di Thurii (350-300 a.C)
Museo Archeologico della Sibaritide, “Toro Cozzante” in bronzo (sec. V a.C.) proveniente dalla colonia romana di Copia.
Da sinistra: Creta, statere (330-270 a.C.), Misia, emidracma (350-300 a.C.).

Contraddistinti da una “grande robustezza, energia, rusticità e capacità di adattamento ad ambienti molto difficili”, i bovini di razza Podolica, attualmente allevati in Calabria, si caratterizzano per un mantello “di colore grigio con tendenza al grigio scuro su collo, spalla, braccio, coscia, orlatura dell’occhio e dell’orecchio nel maschio; più chiaro fino al bianco nella femmina, anche se esistono soggetti in cui si riscontra un mantello con netta prevalenza di peli di colore nero.” Si osserva una pigmentazione nera di musello, fiocco della coda, unghioni e punta delle corna. La testa, più corta nel maschio, evidenzia in questo corna a mezzaluna, che sono invece a lira nella femmina, mentre il collo si caratterizza per una giogaia abbondante.[lxxxix]

Esemplare di vacca di razza Podolica calabrese (foto di Giovanni Lamanna).

Secondo quanto ci viene riferito durante il Decennio francese, il colore predominante del mantello dei buoi allevati a quel tempo in Calabria – generalmente di taglia “mezzana” – era “il grigio”, anche se esistevano soggetti “neri” e “rossicci” meno ricercati che, si riteneva, però, costituissero “le razze più forti e migliori.”[xc]

Queste affermazioni risultano fondamentalmente confermate dalle notizie contenute nella documentazione locale dei due secoli precedenti, conservata nei protocolli dei notari di diversi centri del Crotonese, che contengono un buon numero di atti di compra-vendita, in cui troviamo la descrizione del bestiame allevato dove, forse in relazione ad una certa eteregeneità, sono descritti soggetti definiti “de persona grande”,[xci] ma anche “di persona bassa, cugnotto”.[xcii]

Emerge così che, per quanto riguarda il colore del loro mantello (“pilatura”), nella quasi totalità dei casi, tutti i soggetti menzionati (sia i buoi che le vacche), possono essere distinti in due gruppi principali, che paiono di consistenza pressochè equivalente: quelli con mantello grigio chiaro e quelli con mantello grigio scuro.

Possono essere ricondotti al primo gruppo i soggetti definiti di “pilatura bianca”,[xciii] ovvero di “pilaturae albae”,[xciv] mentre il secondo appare costituito da quelli definiti di pilatura “pardina” che, a volte, per la prevalenza dei toni più scuri, risultano detti di pilatura “nigra” o “niorazza”,[xcv] ovvero “pardino nigro”.[xcvi]

In questo panorama piuttosto omogeneo, più eccezionalmente compare qualche soggetto definito di “pilatura russa”,[xcvii] o “de pilatura quasi allo russo cerasola”,[xcviii]  altre volte definita “folina”[xcix] (fulvo, biondo),[c] oppure di colore “melato”,[ci] mentre la menzione di un capo con la “fronte rossa pilatura bianca”,[cii] sembra fare riferimento più ad una particolarità del soggetto che non all’aspetto generale del suo mantello.

Per quanto riguarda invece, la forma delle corna, soprattutto nel caso dei buoi, ma anche nella descrizione delle vacche (più rara), ricorrono principalmente due forme: una “cornatura” definita “castellina”, riconducibile ad una forma più eretta (“irta”),[ciii] con un portamento più vistoso (“cornatura larga et castellina”),[civ] più o meno “aperta”,[cv] ed una “cornatura” definita “spasa”, termine che possiamo interpretare con una forma più patente, come si specifica ad esempio, quando si dice: “Corni spasa et vascia di sotto”,[cvi] o “cornatura panda”,[cvii] ossia piegata in giù.[cviii]

Essendo un tratto fortemente caratteristico, non mancano in questo caso accenni a particolarità soggettive, come quando la “cornatura” di alcuni buoi è definita: “Curta”,[cix] “pardina” (ossia nerastra),[cx] “vacchina”,[cxi] oppure quando un bue si definisce “corni chino”,[cxii] “scornicchiato”/”contusoliato”,[cxiii] o con i “Corni irti voltati in de ret.o”,[cxiv] oppure si specifica che una vacca aveva “poco Corna”.[cxv]

Vacche di razza Podolica calabrese con i loro vitelli sull’altopiano silano (foto Archivio fotografico ARSAC).

Ferro, “bulla, et merco”

Allo scopo di renderli meglio riconoscibili, e quindi più rivendicabili in caso di furto, dopo essere stati domati, generalmente, i bovini venivano marchiati con un ferro rovente. La ferratura era praticata ai vitellazzi sul principio della primavera, durante il mese di marzo, prima della risalita all’alpeggio, come riferisce un atto del 2 febbraio 1624, in cui si menzionano gli “allevi dico vitellazze che si ferrano questo mese di Marzo p.o venturo”.[cxvi]

Gli animali domiti dell’“Armento”,[cxvii] ferrati con il “ferro di ferrare vacche”[cxviii] del loro padrone, oppure d’altri,[cxix] generalmente alla groppa destra,[cxx] ovvero alla “coscia destra”,[cxxi] qualche altra volta invece “a manco”,[cxxii] erano detti “in ferro”,[cxxiii] mentre erano dette “sferrate”,[cxxiv] ossia “senza ferro”,[cxxv] le bestie selvaggie, ossia “scerrate”,[cxxvi] non ferrate.

Assieme al “ferro” che, in genere, recava le iniziali del nome del padrone all’interno di un “tondo”, o di un altro disegno, a volte sormontato da una croce, evidenziate anche dalla “bulla allo gangale dextro”,[cxxvii] ovvero alla “mascilla”,[cxxviii] oppure al “guanciale sinistro”,[cxxix] l’appartenenza degli animali era assicurata anche dal “signo” o “merco”/”marco”, fatto alle loro orecchie che, mediante tagli, risultavano “ingagliate”, “singate” ovvero “fiaccate”, in maniera caratteristica.[cxxx]

Troviamo così che, verso la metà del Cinquecento, ogni animale della “raza” del dottor Jo. Baptista Longobucco di Umbriatico, era “singato del singo” di detto Jo. Bap.ta, cioè si presentava “con la aurichia destra ad tridenti et muza in avanti et con la sinistra gagliata avanti”.[cxxxi]

Esemplare di vacca di razza Podolica calabrese ferrata alla groppa destra (foto Archivio fotografico ARSAC).
Il “ferro” di Andrea Rizza di Policastro riprodotto su due diversi documenti.

Come si evidenzia anche nell’atto del 2 febbraio 1624 precedentemente menzionato, dove si descrivono i quattro “bovi” consegnati da Antonio Lanzo a suo figlio: il primo di nome “salamune cornatura bianca corni spaso ferrato con lo ferro di esso Antonio”, “con la bulla allo gangale dextro”, con una “C” e con “l’auricchia ingagliate adietro”, il secondo di nome “Ceraso”, “fronte rossa pilatura bianca coll’istesso ferro bulla et signo”, il terzo di nome “lumbardo”, “pilatura bianca poco Cuda Corni Castellino” con lo stesso ferro, e l’ultimo di nome “pardino, et pardino di pelo”, “corni chino”. Animali che erano tutti “dello istesso ferro, bulla, et marco marcati”.

Nella stessa occasione erano consegnate anche quattro vacche: una di nome “Berardina”, una “Caterina”, di “pilatura bianca Cornatura Castellina”, un’altra di nome “Vittoria”, di “pilatura bianca Cornatura spasa”, un’altra di nome “curmana”, “pilatura melato et poco Corna”. Animali che similmente, si trovavano “ferrate, marcate et signate, et ingagliate dell’istesso ferro, et merco ac bulla”.[cxxxii]

Una descrizione della ferratura e del “signo” portato dagli animali di Antonio Lanzo, ricorre anche in un atto del 17 dicembre 1627. Quel giorno, per consentirgli di ascendere agli ordini sacri, i coniugi Antonio Lanzo e Ippolita Catanzaro di Policastro, donavano al Cl.o Vittorio Lanzo loro figlio, l’eredità lasciatagli dal quondam D. Joannes Lanzo: 3 “para de bovi” ferrati del ferro di detto quondam D. Joannes, un paro di “jenchi” ferrati del detto ferro, 10 “bacche grosse figliate”, 3 “jenche delli due anni”, 1 “toro”, 5 “vitellazze dell’anno”, 1 “jencarune dello anno”. Tutte le bestie risultavano ferrate con il detto ferro e avevano le orecchie “ingagliate tutte due di detro”.[cxxxiii]

Alcuni “ferri” riportati dagli atti notarili conservati all’Archivio di Stato di Catanzaro. Cominciando in alto da sinistra: quello della mag.ca Feliciana Valente di Crotone, quello di Antonio Lanzo di Policastro, quello di Gio: Alfonso Campitello di Policastro, e quello di Antonio Guarano di Policastro.

Una precisa identità

Assieme al riconoscimento fornito dalla ferratura sulla groppa e alla “bulla et signo”, contribuiva a definire l’identità di ogni singolo capo, l’attribuzione di un nome proprio da parte del padrone. La circostanza è evidenziata già nella documentazione dei sec. XVI-XVII, ma dobbiamo ritenere che quest’uso fosse comunque più antico, anche se il nome degli animali non compare mai nella documentazione medievale a riguardo di cui disponiamo.

Tra i numerosi nomi riportati in questi documenti, attribuiti agli animali sia domiti che selvaggi[cxxxiv] in età adulta[cxxxv] ma, a volte, anche ai giovenchi,[cxxxvi] quello più ricorrente tra i maschi risulta “Pardino” (8), ben attestato anche per le femmine dal nome “Pardinella” (4), correlabile al colore scuro, nerastro, del mantello, mentre, meno frequente risultano “Ceraso” (4), o “Cerasella” (1), e “Russana” (2), che dimostrano, invece, di essere in relazione al colore rosso, ossia fulvo, dello stesso.[cxxxvii] Alle caratteristiche del mantello (“pilatura”), possiamo ricondurre anche “Spulveri” (2), mentre “Castellino/a” (5) e “Pandella” (1),  paiono riferibili al tipo di “cornatura”. Alle caratteristiche fisiche del soggetto dimostrano di riferirsi anche “Occhiato” (1) o “Occhinigra” (1), per l’esistenza, evidentemente, di un contorno degli occhi (caratteristico della razza) particolarmente marcato, e “Muscarello” (1), con ogni probabilità riferito ad un animale di piccola taglia.

Sembra invece offrire un aggancio ad una particolare origine, riconducibile al territorio di Cosenza  e dei suoi Casali, il nome abbastanza ricorrente di “Lumbardo-Lumbardello/a” (7), come sembrano testimoniare anche i meno frequenti “Cosentino/a” (2) e “Calabrisi” (1).

Accanto alla categoria in cui possiamo raggruppare i nomi correlati alle particolarità fisiche degli animali, ne possiamo costituire un’altra costituita da quelli che sottolineano i tratti particolari della loro indole. Oltre a “Favorito”-“Fagorito/a” (5), troviamo così: “Gratiuso/a” (9), “Salamune” (6), “Paladino” (6), “Saporito” (5) e “Saporita” (1), “Amoruso” (3) e “Amorosa” (1), “Innamorato” (2), “Saccomanno” (2), ossia servizievole,[cxxxviii] “Scaramuzza” (1), “Faiillo” (1), ossia scintilla,[cxxxix] “Mancuso” (1) e “Mancusella” (3), “Bufalillo” (1) e “Bufalella” (1), “Massaro” (1) e “Massarella (1), “Caporale” (1).

Attributi particolari a volte espressi attraverso l’accostamento ad una pianta o ad un frutto: “Olivo” (1) e “Virde oliva” (2), “Columbra-Columbrella” (2), “Granato” (1), “Cotugno” (1) e “Cotugnella” (1), “Arangella” (1), “Riganello” (1), di un uccello: “Falcune”-“Farcunello” (6), “Astorello”-“Strello” (3), “Riscignolo-Briscignolo” (2), ossia usignolo,[cxl] “Palumbo” (1) e “Palumba-Palumbella” (3), “Quagliuza” (1), “Anatrella” (1), oppure ad un altro animale: “Capriolo” (1), “Serpentino” (1).

Sporadico risulta l’uso di nomi propri di persona di genere maschile: “Marino” (2), “Rinaudo-Rinaldo” (2), “Martino” (1), “Celestino” (1), “Fiorello” (1), “Minico” (1), “Romano” (1), “Sabatino” (1), e “Pelegrino” (1), mentre più ricorrentemente si ritrovano quelli di genere femminile che, rispetto ai primi, si presentano più spesso in una forma vezzeggiativa.

Oltre a “Bella donna” (1) e “Donnicella” (1), ricorrono: “Caterina”-“Caterinella” (6), “Polita” (4), ossia Ippolita, “Berardina” (3), “Lucretia” (2), “Isabella” (2), “Antonina” (2), “Angilella” (2), “Minica” e “Minichella” (2), “Andriana” (1), “Vittoria” (1), “Innocentia” (1), “Camilla” (1), “Giulia” (1), “Nastasia” (1), “Marinella” (1), “Antonia” (1), “Rosa” (1), “Francisca” (1), “Laurencella” (1) e “Paula” (1).

Accanto a questi se ne trovano molti altri che, per lo più, ricorrono isolatamente, dimostrando così di essere frutto di una fantasia ispirata dalle particolari caratteristiche e indole dei singoli soggetti. A titolo di esempio ne riportiamo alcuni: “Pergola” (4), “Castellana” (2), “Capoccina” (2), “Juvencella” (2), “Pedota” (2), “Fasana” (2), “Spagnola” (2),  “Cutromana” (1), “Curmana” (1), “Ferrantina” (1), “Zingara” (1), “Coruna” (1), “Leggera” (1), “Nastrina” (1), “Vitronca” (1), “Regina” (1), “Cucuzzella” (1), “Mercorella” (1), “Sansilia” (1), “Autera” (1), “Lumia” (1), “Scavella” (1), “Infusina” (1), “Coscarella” (1), “Rindina” (1), “Saracina” (1), “Fronduta” (1), “Andarina” (1), “Merulina” (1), “Contegnusa” (1), “Viola” (1), “Reversa” (1), “Caccavella” (1), “Cudarvella” (1), “Montagnola” (1), “Mala Spina” (1), “Burrella” (1), “Vaira” (1), “Cornilia” (1), “Narginara” (1), “Capuana” (1), Scantina” (1), “Monaca” (1), “Germana” (1), “Virgarella” (1), “Squitata” (1), “Chiusula” (1), “Vatinia” (1), “Pisenpa” (1).

Note

[i] Parigi Bini R., Le Razze Bovine, Bologna 1983, pp. 7-8.

[ii] Diod. IV, 24.

[iii] Conone, Narrat., III.

[iv] Licof. 857; Livio XXIV, 3.

[v] Livio XXIV, 3.

[vi] Rende P., Mito e Storia di Crotone nella Magna Grecia, www.archiviostoricocrotone.it

[vii] “… infatti questi ultimi chiamano «Brettî» i ribelli. Questi Brettî dunque, che prima erano dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani, essendo poi divenuti liberi per l’indulgenza dei loro padroni, si ribellarono, a quanto dicono, quando Dione fece guerra a Dionisio e sollevò tutti questi popoli gli uni contro gli altri.” Strabone, Geografia VI, 1, 4. Rende P., La formazione del territorio Crotonese: dalla “chora” dei Brettii ribelli fino alle “terre” del “Marchesato” (sec. I-XIV), www.archiviostoricocrotone.it

[viii] Dito O., La storia Calabrese e la dimora degli Ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, p. 119.

[ix] 13 aprile 1289. “N. V. R(oberto), comiti Atrebatensi una cum Gerardo, episcopo Sabinensi, Ap. S. Legato, Baiulo regni Siciliae per Romanam Ecclesiam constituto, mandat quatenus mercatores in boum emptionem et extractionem pro coquinae Curiae Apostolicae usu quadrigentorum, porcorum trium milium et sex milium castratorum adiuvare velint; tamen boum emptionem et extractionem suspendere censent pro eo quod tota Calabria et maior pars Basilicatae propter guerram praesentis temporis bubus usque adeo exausta dinoscitur quod, nisi illarum partium inculis pro serendo seu seminando de bubus Apuliae succurratur, grave dampnum incurrere poterunt et iacturam.” Russo F., Regesto I, 1269.

[x] Pesavento A., Produzione e commercio del formaggio a Crotone dal Cinquecento al Settecento, www.archiviostoricocrotone.it

[xi] 05 ottobre 1644. Un “Coiro di quelli bovi” ducati 5. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 307, ff. 055v-057.

[xii] 27 settembre 1626. Per estinguere un debito di 10 carlini, si promettevano “due giornate di bovi alli simenti primi” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296 ff. 073-073v). In alcuni casi, invece, alcune giornate di lavoro da parte dei propri buoi, erano offerti come dono di nozze. 24 aprile 1629. Davanti al notaro comparivano Fran.co Tavernise di Policastro e Nicolao Galati della terra di Filogaso, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Nicolao e Feliciana Tavernise, figlia di detto Fran.co. Berardino di Franco prometteva a futuri sposi “tre giornate di bovi alli simenti primi”, mentre And.a Polla, zio della futura sposa, prometteva “quattro giornate di bovi alli simenti primi” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 297, ff. 017-018).

Coloro che non possedevano animali, ricorrevano all’affitto per svolgere i lavori agricoli. 28. Giugno 1654. Policastro. Marcello Voino di Aprigliano, ma al presente “habitante” in Policastro, risultava debitore nei confronti del R. D. Gio: Jacovo Aquila, di tt.a 18 di grano per l’affitto di un “paro di bovi” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro, Busta 196 prot. 879, ff. 062-063).

[xiii] 14.09.1699. Mesoraca. Stefano Perrotta acquistava dall’arcivescovo di Santa Severina tre buoi che già deteneva in custodia, “p(er) potersine servire nella serra” della Mensa arcivescovile posta in territorio di Policastro “loco d.o la Menta”, dove il detto Stefano stava lavorando e dove i detti animali erano impegnati “p(er) il lavoro, e trafico delle tavole”. AASS, 054A.

[xiv] ASN, Dipendenze della Sommaria, Fs. 187, 196, 197. Rende P., Il lavoro degli “homines” di Mesoraca nella “regia fabrica” del castello e delle mura di Crotone, www.archiviostoricocrotone.it

[xv] 21 agosto 1634. Cotronei. Si riferisce circa la “pretensione della decima delli animali baccini” avanzata dalla Mensa arcivescovile di Santa Severina, “contro la forma dell’antico solito”, in quanto “li animali baccini non hanno gianmai pagato” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 301, ff. 124v-128).

[xvi] “Nota dell’Entrade della Parocchia di S. Pietro di Policastro. Il Paroco suole esigere ogn’anno di Agosto un tt.o di grano ò di germano, o di orgio che seminerà ciascheduno Massaro con un paro di bovi, e seminando con più para, per ogni paro paga un tt.o in questa Parocchia attualm.te vi sono nove para di bovi che in q.to anno s’esigono tt.a nove. tt.a 9.” AASS, 24B, fasc. 1.

[xvii] “… il bifolco, che non ha provvisioni di foraggi, non trova miglior partito di pasturarle che di arrampicarsi sugli alberi e scapitozzarli. Ed egli con l’aiuto delle calandrelle vi monta facilmente e passa da ramo a ramo, e sovente da albero ad albero; la quale abilità è veramente mirabile, ma torna a danno incalcolabile delle nostre selve, tra le quali il passaggio del bifolco è segnato da cadaveri. Tu trovi qui degli alberi, altri sbatacchiati e sbucciati, che miseramente abbiosciano, altri divettati, ed impediti di venire innanzi, altri scoronati e sfronzati per intero.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 111.

[xviii] Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 111.

[xix] “La città di Crotone è marittima, mercantile e di vario traffico, ove concorrono molte imbarcazioni specialmente per il trasporto de’ grani di quasi tutte le due Calabrie, …”. Pesavento A., Crotone marittima e mercantile. La città nel Viceregno, 1987.

[xx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 78 prot. 290, ff. 005v-009.

[xxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 297, ff. 141-142v.

[xxii] 09 gennaio 1587. Cirò. Durante l’annata 1585-1586, l’hon: Joseph Russo della terra di Melissa, “habuit, et custodivit in medietatem lucri iuvencos quadrag.ta octo” del Rev. presbitero Alphonso Curiale, assieme a Bartolo Lumbardo “socio in Custodiae d(ic)torum iuvencorum”. ASCZ, Notaio Durande G. D., busta 35, f. 348.

[xxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 099-100v.

[xxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 303, ff. 022-023v.

[xxv] 24 novembre 1634. Policastro. Delia Furesta, vedova del quondam Livio Zurlo, vendeva al R.do D. Gegnacovo de Aquila, per parte del canonico Gio: Dom.co Aquila commorante nella città di Napoli, “una murra di vacche”, ovvero di “animali baccini”, composta dai seguenti animali: “Vacche figliate con l’allevi apresso” numero 21, “Vacche stirpe” numero 7, “Jenche” numero 7, “Vitellazze” numero 5, e 1 “toro”, per il prezzo complessivo di ducati 407 alla ragione di ducati 12 l’una “le figliate”, ducati 9 “le stirpe”, ducati 8 le “Jenche”, ducati 5 le “vitellazze” ed il “toro” ducati 11. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 301, ff. 155v-156v.

[xxvi] “Il bestiame boccino … Non si dà a soccio; il frutto è tutto del proprietario, e ciascun vaccaro ha per anno la mercede di L. 101 e 97 centesimi e i capomandria (caporali) quella di 127 lire e 46 centesimi. Non si chiude dentro stalle, ma in parchi scoverti (cortina) ed emigra, al pari delle pecore e delle capre dai monti al piano, e dal piano ai monti.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 113.

[xxvii] “Il bifolco non tocca vitto dal padrone, ma quando è mandato a lavorare per altrui, viene spesato da chi ne conduce l’opera.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 111.

[xxviii] Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 111. Anche i “garczoni”, addetti alla guardia dei buoi della Corte durante i lavori delle fortificazioni di Crotone alla metà del Cinquecento, non ricevevano un salario giornaliero ma erano “locati ad anno di Molera”. Essi infatti, ricevevano periodicamente un pagamento “in conto” delle loro spettanze, in relazione ad una retribuzione (“soldo”) di ducati 12 all’anno che decorreva a partire dal giorno della fiera di Molerà (otto settembre), ambito tradizionale per la compra-vendita del bestiame di tutto il territorio crotonese.

[xxix] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 803, ff. 131-133.

[xxx] “Item quod trecente vacce habeant custodes quatuor et unum pro reditu a mense martii usque per totum mensem maii donec vacce mungantur et alio tempore habeant custodes tres.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 144.

[xxxi] “Item vacca incipit posse portare filios a duobus annis completis in antea et portata fetum in ventre per mensem novem et durant posse concipere vel impregnari a mense martii in antea in quolibet centenario vaccarum sufficiunt tauri quinque.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 148.

[xxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[xxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 301, ff. 155v-156v.

[xxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 294, ff. 035-036.

[xxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 048v-052.

[xxxvi] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 802, ff. 066-067.

[xxxvii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 801, ff. 051-052.

[xxxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 303, ff. 022-023v.

[xxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro Busta 80 prot. 304, ff. 120-122v.

[xl] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro, Busta 196 prot. 874, ff. 047v-049.

[xli] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 806, ff. 059v-061v. In alcuni casi i giovenchi di quest’età erano lasciati pascolare con le vacche: “un paro di jencaroni, che tiene con le sue bacche” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 307, ff. 084v-087); un paio di “Jenchi” o “Giovenchi delli due anni in tre delli mediocri che tiene nelle sue Vacche” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro, Busta 196 prot. 878, ff. 005v-007v).

2 “Jenche “ di 3 anni, 3 “Jenchi” di 3 anni

[xlii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 306, ff. 094-094v.

[xliii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 803, ff. 050v-053. 31 gennaio 1576. Cirò. “uno juvenco capidomito annorum quattuor in circa (…) et esse pilaturae pardinae cornaturae Castellinae et nomine lumbardum”. ASCZ, Notaio Consulo B., Cirò, busta 8, ff. 158v-159.

[xliv] “Item vacca incipit posse portare filios a duobus annis completis in antea …” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 148.

[xlv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 293 ff. s.n.; Busta 80 prot. 302, ff. 026v-028.

[xlvi] Mesoraca. Nell’aprile del 1254 (a.m. 6762) 12.a indizione, in occasione delle nozze tra Rogerio figlio di Urso detto il Crudele, e Dilassa figlia di Johannes Lambardo, quest’ultimo donava al genero, tra le altre cose, diversi capi di bestiame. Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, pp. 89-91.

21 settembre 1616. Policastro. Davanti al notaro comparivano Joannes Jacobo de Torres e Joannes Cavallo, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra quest’ultimo e Dianora de Federico. Alla dote appartenevano un paio di buoi oppure di “jenchi” a scelta del futuro sposo. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 78 prot. 290, ff. 130v-132.

30 maggio 1633. Policastro. Davanti al notaro comparivano i coniugi Joannes Thoma Zidattolo e Fragostina Mannarino, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra la loro figlia Anastasia e Scipione Cavarretta. Appartenevano alla dote: Due vacche figliate “sferrate” di nome “leggera” e “Cosentina” entrambe “di pilo pardino”, mentre i loro vitelli che gli stavano appresso sarebbero rimasti ai promissori. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 300, ff. 033v-034.

17 gennaio 1634 e 7 aprile 1635. Policastro. In conformità ai capitoli matrimoniali stipulati tra il chierico Attilio Gangale di Cotronei e Ippolita Coliccia, il detto Attilio e Vespesiano Gangale dichiaravano di aver ricevuto da Alfonso Campitello i seguenti animali, tutti “capi domiti”: 7 “bacche figliate”, di nome “Pardinella” con il vitello mascolo, Nastrina con la vitella femmina, Pedota con la vitella femmina, Antonina con la vitella femmina, Pergola con lo vitello mascolo, Mancosella con il vitello mascolo e Polita con la vitella femmina, 3 “Jenche stirpe”, 1 “Vitellazza”, 1 “Jencarune dell’anno in due”, 1 “bove scornicchiato” di nome “fagorito”, 2 “Jencaruni delli due anni in tre” ed un “toro delli tre anni in qua” , ferrato del ferro di detto Alfonso, mentre gli altri animali era ferrati “di diversi ferri”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 293, ff. s.n; Busta 80 prot. 302, ff. 026v-028.

[xlvii] 06 marzo 1624. Policastro. Per consentirgli di ascendere agli ordini sacri, Joannes Poerio de Alfonso, donava al Cl.o Joannes Alfonso Poerio, figlio di Hijeronimo Poerio, i seguenti animali: 2 “vacche annicchiariche, scerrate”, una di nome “Caterina” e l’altra “lumbardella” di “pilatura pardina”, due “vacche stirpe” ferrate del ferro del quondam D. Aniballe Callea “alla gruppa destra”, una di nome “Innocentia” e l’altra “Camilla”, ed una “jenca stirpa scerrata” tutte della stessa pilatura. Gli donava ancora: un “paro di jenchi”, ferrati dello stesso merco e ferro di detto D. Aniballe, e un “paro di bovi”, uno di nome “falcune” e l’altro “Saporito” di “pilatura bianca”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 017-018.

18 settembre 1624. Policastro. Per consentirgli di poter attendere agli ordini sacri, Petro Paulo Serra donava “per viam emancipationis” al clerico Joanne Baptista suo figlio, alcuni beni, tra cui: “due para di bovi”, uno di nome “pelegrino”, ferrato del ferro di Ferrante Cerasaro, l’altro di nome “favorito”, ferrato del ferro del quondam D. Aniballe Callea, l’altro di nome “olivo”, ferrato del ferro del quondam Nardo Tuscano, e l’altro di nome “Ceraso”, ferrato del ferro di Fabio Rotundo. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 070-071.

17 dicembre 1627. Policastro. Per consentirgli di ascendere agli ordini sacri, i coniugi Antonio Lanzo e Ippolita Catanzaro, donavano al Cl.o Vittorio loro figlio: 3 “para de bovi” ferrati del ferro del quondam D. Joannes Lanzo, un paro di “jenchi” ferrati del detto ferro, 10 “bacche grosse figliate”, 3 “jenche delli due anni”, 1 “toro”, 5 “vitellazze dell’anno”, 1 “jencarune dello anno”, tutte bestie ferrate del detto ferro, “ingagliate tutte due di detro”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro. Busta 79 prot. 296, ff. 173v-174v.

25 settembre 1631. Policastro. Alfonso Campitello dona al Cl.o Ferdinando suo figlio, alcuni beni tra cui: 3 “para di bovi” nominati: “paladino, gratiuso, saporito, occhiato, farconello et salamune”, ferrati con diversi ferri; 3 “para di jenchi selvaggi” ferrati con il ferro di detto Alfonso, 50 “vacche” di cui 15 figliate e le altre stirpe:  “ferrantina figliata, Castellana, Zingara, Coruna figliata, Isabella figliata, mancusella figliata seu stirpa, Jsabella figliata, spagnola figliata, Virde oliva stirpa, Angilella Annicchiarica, palumbella figliata, Castellina Annicchiarica. Jenche delli dui anni la jenca di sabella, la ijenca di pardinella, la ijenca di oliva, la ijenca di ferrantina, uno tauriglione di pardinella, Vitellazzi di de… lo vitellazzo de Caudanella, la vitellazza di Castellana, la vitellazza di angilella, la vitellazza di Coruna, la vitellazza di Columbrella, la vitellazza di Mannarina, la vitellazza di oliva, la vitellazza di spagnola, Pardinella con vitella, pedota con vitello, polita figliata con vitello, mancusella figliata con vitella, pergola annicchiarica con vitello, Capoccina annicchiarica ferrina, Antonina stirpa, Donnicella stirpa”.  ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 298, ff. 066v-068.

17 novembre 1632. Policastro. Laurentio Vaccaro donava al presbitero D. Joannes Thoma Caccurio, 3 “boves”: uno di nome “Rinaudo”, ferrato del ferro di Ant.o Lanzo “Cornatura Castellina”, l’altro di nome “gratiuso”, ferrato similmente, l’altro di nome “paladino”, “Cornatura Castellina” ferrato del ferro di D. Gegnacovo de Aquila. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 299, ff. 088-088v.

[xlviii] 13 marzo 1621. Policastro. Joannes Thoma Curcio di Mesoraca, vendeva alcuni beni al presbitero D. Joannes Petro Giraldis, tra cui il “bovem” di nome “Muscarellum pilature Pardine, et Cornature spase”, ferrato del ferro di Joannes Thoma Bucceri. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 293, ff. 014-014v.

04 marzo 1626. Policastro. Nei mesi passati, Laurentio Ceraldo, ordinario serviente della Regia Curia di Policastro, dietro istanza del Cl.o D. Ottavio Vitetta, aveva fatto esecuzione contro Stefano de Martino per un debito di ducati 86. I detti ducati 86 erano relativi alla vendita di 4 “bacci domiti” ferrate alla “coscia destra” con il ferro del detto Cl.o Ottavio. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 022v-025.

27 settembre 1626. Policastro. Vendita di “uno bove nomine paladino”, ferrato del ferro di Gio: Thomaso Tronga, “cornatura irta di pilatura bianca”, per il prezzo di ducati 15. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 073-073v.

[xlix] 17 settembre 1654. Policastro. Davanti al notaro comparivano il R. D.r Felice Massaro e Gian Camillo la Piruta di “S.to Nicola dela Strada” casale di Capua. Il detto Gian Camillo asseriva di aver comprato in Policastro molti “animali baccini”: 10 vacche “annicchiariche” da Dieco Cavarretta, alla ragione di ducati 30 “lo paro”, per un totale di ducati 150;  un “paro de bovi” da Fran.co Lettello, per ducati 26; un “paro de bovi” da Gio: Dom.co Cavallo, per ducati 25; un “bove” da Gio: Dom.co lo Greco, per ducati 12 e ½; un “paro de bovi” da Gio: Battista Cerasaro, per ducati 27. Tutti per una somma totale di ducati 240 e ½, che era stata pagata dal detto R. D.r Felice. Per ripagarlo, il detto Gian Camillo s’impegnava a consegnare i detti ducati 240 e ½ al R. D. Cesare Massaro nella città di Caserta, assieme ad altri ducati 30, entro il termine del giorno 10 di ottobre prossimo venturo. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro, Busta 196 prot. 879, ff. 115-116v.

09 settembre 1655. Cotronei. Davanti al notaro comparivano Gian Camillo La Piruta del casale di S.to Nicola della Strada de Capua, e Gio: Angelo Gangario della terra di Cotronei, in nome e per parte di Gio: Battista Gargano “Erario della Città di Belcastro”. Le parti asserivano che il R. D. Felice Massaro, “agente generale” e procuratore del S.r Duca di Belcastro, aveva ordinato per iscritto al detto Gio: Battista, affinché pagasse ducati 100 al detto Gian Camillo, di cui ducati 60 in conto delle entrate della città di Belcastro del presente anno. Al presente, il detto Gio: Angelo consegnava il denaro in monete d’oro al detto Gian Camillo. Quest’ultimo s’impegnava a pagare il denaro nelle mani di detto R. D. Felice alla fine di settembre nella città di Napoli, obbligando “se istesso” e specialmente gli animali “baccini e bovini” che aveva comprato con il medesimo denaro ricevuto. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro. Busta 196 prot. 880, ff. 132v-134.

[l] 02 settembre 1632. Policastro. Per il prezzo di ducati 45, Fabritio Scoraci vendeva al Cl.o Lucantonio Fanele, la metà della possessione appartenuta a Fran.co Antonio Fanele, padre di detto Cl.o Lucantonio, posta nel territorio di Policastro loco detto “paternise”. Ducati 33 erano pagati attraverso la cessione di uno “paro di bovi”, uno di nome “gratiuso”, di “pelo bianco” ferrato alla groppa destra del ferro di Andria Rizza di Policastro, e l’altro di nome “salamune”, di “pilatura pardina Cornatura vacchina” ferrato allo stesso modo. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 299, ff. 069v-070v.

29 novembre 1633. Policastro. Il Cl.o Lucantonio Fanele vendeva a Salvatore de Cola, un vignale posto nel territorio di Policastro loco detto “paternise”, per ducati 25. Detto Lucantonio riceveva da detto Salvatore ducati 14 in “tarenos” d’argento, dandoli a suo padre Fran.co Antonio Fanele mentre, per i restanti ducati 11, a complimento di detto prezzo, il detto Salvatore gli consegnava un “Jenco” ferrato del ferro “delli voni” della Roccabernarda. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 300, ff. 115-117.

30 settembre 1635. Compravendita dove parte del pagamento era realizzato attraverso la cessione di “parum unum bovorum domitorum”, uno di nome “riscignolo” di “pilatura bianca” e l’altro “pardino” di pilatura pardina, valutati ducati 34. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 80 prot. 302, ff. 103-104.

[li] Trinchera F., Syllabus Graecarum membranarum 1865 pp. 150-151 n. CXIII.

[lii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 360-361.

[liii] Et nell’anno 1661 d’havere pascolato con suoi giumente, bufali et altri animali li sudetti territorii Sodaro, Docime, San Pietro di Ninfe, et terre seu Piano delle Fosse di d.a Chiesa …”. AASS, 028A.

[liv] “Pro bove domito unc. I, tar. X. Pro vacca sine vitula tar. XXII. Pro vacca cum vitula unc. I. Pro iumento duorum annorum tar. XV. Pro iumento unius anni tar. VII. Pro iumento indomito trium annorum unc. I. Pro iumento duorum annorum tar. XX. Pro iumento unius anni tar. X.” “Pro bula feta unc. I. Pro bubalo unc. I, tar. X. Pro bulo duorum annorum tar. XXV. Pro bubalo unius anni tar. XV.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 145.

[lv] 01 novembre 1577. Cirò. “duobus bovibus uno videlicet: nomine fagorito pilaturae pardinae cornaturae castellinae: alio vero boves nomine Calvano cornaturae apertae et pilaturae pardinae existimatis et appretiatis dictis duobus bovibus in d. trig.ta”. ASCZ, Notaio Consulo B., Cirò, busta 8, ff. 246-247v.

[lvi] 11 settembre 1541. “Ad la fera de mulera se haveno dispiso ducati Cento Cinq.ta quatt.o de monita per lo preczo de bovi n° 13 Comperati per ser.o de ditta regia frabica de pio et diversi personi in pio preczi per mano di joanne risitano li quali bovi sono stati comprati dali infr(ascript)i v(idelicet): de th(omas)i laczaro de belc.o bove uno per ducati undichi; da Carlo de verczini uno boi d. 13 ½ de paduano de mauro de santa s(everi)na uno bove per d. 13 ½ da stefano Casalutio de Cotroni bove uno per d. 14 da joamber.no lo morello de Cotroni uno boi per d. 13 da antonuchio risitano de Cotroni per dui bovi d. 23 da Ces.o fiasco de santa s(everi)na duc. 21 ½ de marco terranova de Cotroni uno boi duc. 10 de jo(ann)i muschetta dela rocca ber.da uno bove duc. 11 da joanni de belc.o habitanti in la rocca ber.da uno bove d. 11 ½ da jo(ann)e anmino della rocca ber.da uno bove per duc. 12 li quali tutti fanno la summa de ditti bovi n° 13 et de ditti denari d. 154 dico d. 154.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 70v.

[lvii] 19 settembre 1541. “Luca Leon.o de Cotroni per lo preczo de uno bove nomine romano de pilatura pardina et Corni irto d. 11.2.10.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 85.

25 settembre 1541. “Ad ms Cesaro prestera de Umbriatico per lo preczo de quatt.o bovi nominati luno asturello Ceraso bufalillo et paladino del merco de ditto ms Cesaro ad ragione de ducati quattordici luno d. 56.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 86.

26 settembre 1541. “Ad jac.o risitano delo psigro per lo preczo de quatt.o bovi ad ducati 13 luno nominati spulveri de pilatura pardina Corni irti voltati in de ret.o lalt.o martino de la medesima pilatura et Cornatura lo terczo falconi Corni simil(ite)r de pilatura pardina lo quarto nominato marino de pilatura pardina Corni irto so d. 52.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 91.

10 marzo 1542. “Melauro infusino de santa severina per lo preczo de uno paro de bovi ducati trenta Consignati ad Aurelio moniczionero lo nome deli q.ali et pilatura li sape lo suprastanti deli garczoni dela Corte nomine joanne risitano d. 30.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 208.

31 marzo 1542. “Ad Desideria vidua de joanne acedo spagnolo per uno bove vendio alla regia Corte nomine Calabrisi d. 14.0.0.” ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 229.

[lviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 78 prot. 291 ff. 055-056; Busta 79 prot. 293, ff. 034v-035; Busta 80 prot. 301, ff. 022v-025.

[lix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 297, ff. 117-118; Busta 80 prot. 302, ff. 103-104.

[lx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 78 prot. 287, ff. 082v-084.

[lxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 293 ff. s.n.; Busta 80 prot. 302, ff. 026v-028.

[lxii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 802, ff. 066-067.

[lxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 298, ff. 066v-068.

[lxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 301 ff. 155v-156v.

[lxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 081v-082v.

[lxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 78 prot. 287, ff. 140-140v.

[lxvii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 801, ff. 121v-123.

[lxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 303, ff. 054v-055.

[lxix] Nel 1598 Io. Battista Oliverio di Crotone possedeva 34 vacche “fectas”, 6 stirpe, 8 giovenche e 29 tra vitelli e vitelle (ASCZ, Fondo Notarile busta 58, anno 1598, f. 584). Nel 1620 il nobile Josepho Maria Syllano di Crotone possedeva 40 vacche “fetas”, 24 vacche “stirpas”, 24 tra vitelli e vitelle di due e tre anni e 2 tori (ASCZ, Fondo Notarile busta 117, anno 1620, ff. 39v-40). Facevano parte dell’eredità di Pietro Suriano di Crotone i seguenti animali vaccini: 32 vacche figliate, 31 vitelli nati nel 1708, 32 vacche stirpe, 10 jencarelle, 16 vitellacci, 29 bovi, 11 jencaroni e 8 jenchi grossi (ASCZ, Fondo Notarile busta 497, anno 1708, ff. 51-52).

[lxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 301, ff. 016v-018v.

[lxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 299, ff. 094v-095.

[lxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 301, ff. 155v-156v.

[lxxiii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 801, ff. 051-052.

[lxxiv] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 803, ff. 131-133.

[lxxv] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro, Busta 196 prot. 879, ff. 115-116v.

[lxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[lxxvii] Berardino Suriano nel 1743 aveva 120 buoi, 40 mazzoni, 114 vacche, 77 giovenche, 4 tori (Catasto Onciario Cotrone, 1743, ff. 24-27, ecc).

[lxxviii] Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, 2010.

[lxxix] 14 settembre 1699. L’arcivescovo di Santa Severina vendeva a Stefano Perrotta per il prezzo di ducati 49, tre buoi nominati “Rinaldo”, “Caporale” e “Sabatino”, che rimanevano ipotecati a garanzia del venditore. AASS, 054A.

[lxxx] 14 ottobre 1697. Il mag.co Michel’Angelo Faraldi di Santa Severina, vendeva al Cl.co Antonio Ferraro di Policastro, i seguenti “animali Vaccini”: 41 “Vacche figliate”, 20 “Vacche annicchiariche”, 6 “Giovenche”, 12 “Vitellazzi” e 2 “tori”, ferrati con il ferro del sig.r D. Giacomo Carrara, per il prezzo complessivo di ducati 1055, alla ragione di ducati 26 “il paro” le vacche figliate, ducati 36 “il paro” le vacche annicchiariche, ducati 18 “il paro” le giovenche, ducati 12 “il paro” i vitellazzi, ed i detti due tori per ducati 36. AASS, 010D fasc. 5.

[lxxxi] “Le sudette vacche annicchiariche para sette, e n° quattordici a ragione di docati trentasei il paro importano docati duecento cinquanta due d. 252. Le sudette vacche stirpe para sette meno un terzo, e n° venti a docati trentasei il paro importano docati duecento quaranta d. 240. Le dette jenche grosse delli due in tre anni para tre, et un terzo n° diece a docati trenta sei il paro importano doc.ti cento venti d. 120. Le dette jencarelle d’uno in due anni n° nove para due, et un quarto a docati trentasei il paro importano doc.ottant’uno d. 81. Il d.o toro per docati quindici d. 15.” ASCZ, Fondo Notarile busta 338, anno 1700, ff. 60-63.

[lxxxii] “Ad pet.o Jacomino de Cotroni per deda per minare la calce dominica la notte et per insoncza per detto boi d. 0.0.13” (ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 5, f. 12). “insoncza et agugli” (ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 5, f. 174). “Insuncza per il bove malato” (ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 6, f. 236).

[lxxxiii] “Insunza e vino per la medicina del bove” (ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 6, f. 129v). “Aceto per fare la lavanda al bove malato” (ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 6, f. 236).

[lxxxiv]  “Addi III 8bris 1542. Allo monaco ferraro de Cotroni per tanti medicini per le bove che have piglato li lupi.” “Ad far la lavanda allo pollit.o dela corti che piglao lo lupu.” ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 4, f. 160.

[lxxxv] ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 4, f. 128; fslo 5, f. 132v. ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 5, f. 168v. ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 5, f. 180; fslo 6, ff. 113; 229v.

[lxxxvi] “Addi XXIII 8bris 1542. Ad Susanna muglere de cola turcho de massanova per lo preccio di una cane femina per la guardia deli bove della regia corte per accordio.” “Ad mastro cola mattia de otranto per lo preccio de uno collaro de ferro per ditta cane.” ASN, Dip. Somm., Fs. 196 fslo 4, f. 178.

[lxxxvii] 21 agosto 1584. Cirò. Mastro Scipione Tegano di Cirò, a seguito della richiesta di Fran.co deli Casali abitante in Cirò, in qualità di “miniscarco et esperto in tale arte”, si recava a “medicare” un “somarro”, trovandolo però “che haveva le spalle et lo petto gonfiato del male de lupello et non lo possetti aiutare altramente”. ASCZ, Notaio Consulo B., Cirò, busta 9, ff. 105-105v.

[lxxxviii] ASCZ, Notaio Consulo B., Cirò, busta 9, ff. 96-96v.

[lxxxix] Parigi Bini R., Le Razze Bovine, Bologna 1983, pp. 150-152.

[xc] “In generale le taglie dei buoi calabresi è però mezzana. Il pelo che predomina è il grigio; ve ne ha di neri e di rossicci, ma non sono molto ricercati, malgrado che potrebbero costituire le razze più forti e migliori.” Tratto da La Statistica del Regno di Napoli nel 1811 di Domenico Demarco, Forum di www.forumdiagraria.org.

[xci] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, busta 6, ff. 162-162v.

[xcii] ASCZ, Notaio Durande G. D., busta 35, f. 507.

[xciii] 09 settembre 1586. Cutro. “… et quatuor bovus no(mina)tos videlicet. fiorello de pilatura pardina et cornatura Castellina et saporito de pilatura bianca et cor.a castellina et minico de pilatura bianca et cor.a castellina et farcuni de pilatura bianca et cor.a castellina”. ASCZ, Notaio Ignoto, Cutro, busta 12, prot. 33, ff. 117v-119.

[xciv] 27 dicembre 1581. Cirò. “quendam bovem no(min)e falcone pilaturae albae et cornaturae …ae”. ASCZ, Notaio Durande G. D., Crotone, busta 35, f. 12v.

[xcv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 303, ff. 123-126v.

[xcvi] 05 ottobre 1586. Cirò. “uno paro de voi giovani: uno nomine spolveri de pilatura bianca con una orechia fiaccata a tridente appendino et laltra orechia fiaccata: laltro boe pardino nigro ferrato à destro appendino”. ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, f. 212v.

[xcvii] ASCZ, Notaio C. Cadea, Cirò, busta 6, f. 132v.

[xcviii] 25 lugio 1567. Umbriatico. Uno yencho nominato “briscignolo” della “raza” del dottor Jo. Baptista Longobucco, “singato del singo” di detto Jo. Bap.ta, cioè “con la aurichia destra ad tridenti et muza in avanti et con la sinistra gagliata avanti, et non era ferrato, et era et e de pilatura quasi allo russo cerasola de persona grande et cornatura larga et castellina”.  ASCZ, Notaio C. Cadea, Cirò, busta 6, ff. 162-162v.

[xcix] 01 maggio 1617. Un paio di buoi “quali sonno ferrati del ferro di donno Aniballe Callea di pilatura folina Curta, et l’altro bianco Costellino”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 291, ff. 019-019v.

[c] Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, 2010.

[ci] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[cii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[ciii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 073-073v.

[civ] ASCZ, Notaio C. Cadea Cirò, busta 6, ff. 162-162v.

[cv] ASCZ, Notaio B. Consulo, Cirò, Busta 8, ff. 246-247v.

[cvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[cvii] 10 giugno 1562. Cirò. “uno yenco de anni due in tre figlio di una vacca chiamata sansilia quale yenco e di cornatura panda di pilatura russa”. ASCZ, Notaio C. Cadea, Cirò, busta 6, f. 132v.

[cviii] Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, 2010.

[cix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 78 prot. 291, ff. 019-019v.

[cx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 297, ff. 117-118.

[cxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 299, ff. 069v-070v.

[cxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[cxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 293, ff. s.n. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 302, ff. 026v-028.

[cxiv] ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 91.

[cxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[cxvi] 2 febbraio 1624. Policastro. Precedentemente, il 3 giugno 1621, Antonio Lanzo di Policastro aveva donato al subdiacono Joannes suo figlio, molte robbe mobili ed “animali” per consentirgli di ascendere agli ordini sacri, tra cui anche due “allevi” uno maschio ed una femmina, il primo di “pilatura bianca Corni smurrato”, l’altra che era figlia di “Berardina”, di “pilatura bianca Corni spasa et vascia di sotto”. All’attualità gli consegnava anche quattro “allevi mascoli”, figli delle stesse vacche, “che nacquero lo p.o anno Cioè quelli che vanno actempo della p(rede)tta donatione”, con lo stesso “ferro, bulla et merco”. Gli donava anche quattro “Vitellazze femmine che nacquero l’anno passato” 1622 dalle stesse vacche e tre altri “allevi dico vitellazze che si ferrano questo mese di Marzo p.o venturo”.  ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295 ff. 008v-010.

[cxvii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 803, ff. 125-126v.

[cxviii] 20 luglio 1624. Nell’inventario dei beni esistenti nella casa quondam U.J.D. Joannes Agostino de Cola di Policastro, risulta “uno ferro di ferrare vacche”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 040v-054.

[cxix] 20 settembre 1643. Davanti al notaro comparivano Scipione Tronga, tutore testamentario di Didaco Tronga “sui fratis Pupilli”, con l’altro fratello chierico Marcello Tronga, per dividersi tra loro i beni che possedevano  in comune ed indiviso: 61 “Vacche” di cui 24 “figliate” e le restanti “stirpe”, tutte “ferrate del ferro loro”, 3 “Tori” e 40 “Jenchi” “ferrati dell’istesso ferro”,  55 “Giomente grandi, et piccole”, “tra mascoli et femine ferrate parte con loro ferro, et parte d’altri”. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro, Busta 182 prot. 802, ff. 076v-078v.

[cxx] 06 marzo 1624. Due “vacche stirpe” ferrate del ferro del quondam D. Aniballe Callea “alla gruppa destra” una di nome “Innocentia” e l’altra “Camilla”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 017-018.

16 maggio 1624. Antonino de Simmari di Policastro aveva ricevuto da Joannes Poerio de Alfonso di Policastro, “uno paro di Jenchi selvaggi” del valore di ducati 30, ferrati del ferro del quondam Gio: Ferrante Cerasaro “alla gruppa della parte destra”, uno di nome “Capriolo” e l’altro “pardino” entrambi di “pilatura pardina”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 029v-031.

08 settembre 1627. Per consentirgli di ascendere agli ordini sacerdotali, Beatrice Fanele della Roccabernarda, abitante “in Casale Abatie raetij”, donava al Cl.o Lucantonio Fanele di Policastro, una “baccam” di cornatura “spasa” e pelo “pardino” ferrata alla gruppa destra. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 144v-145.

13 maggio 1631. Fran.co Ant.o Fanele di Policastro, emancipava il figlio chierico Luca Antonio e gli donava alcuni beni, tra cui: “un paro di bovi” uno di nome “gratiuso” e l’altro “salamune” “ferrati alla gruppa destra” dal ferro di And.a Rizza di Ottavio. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 298, ff. 040v-041.

02 settembre 1632. Fabritio Scoraci di Policastro cedeva al Cl.o Lucantonio Fanele un “paro di bovi”, uno di nome “gratiuso” di “pelo bianco”, ferrato alla groppa destra del ferro di Andria Rizza di Policastro, e l’altro di nome “salamune” di “pilatura pardina Cornatura vacchina” ferrato medesimamente. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 299, ff. 069v-070v.

09 settembre 1632. Il Cl.o Joannes Baptista Pinello di Policastro donava al Cl.o Fran.co Martulotta di Policastro, i seguenti animali: “parum unum bovum”, il primo di nome “gratiuso” di “pelo bianco” ferrato alla “gruppa destra” del ferro del quondam Ant.o Lanzo, l’altro di nome “Cosentino” di “pelo pardino” ferrato alla “gruppa destra” con uno “G. et S”, che aveva comprati da Marcello Apa, una vacca figliata con un “vitello mascolo” che aveva comprato da Fran.co Cavallo, ferrata del ferro di Marco Ant.o Coco. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 79 prot. 299 ff. 071-071v.

13 maggio 1635. Nei mesi passati, Andria Rizza de Ottavio di Policastro, aveva venduto per 200 ducati al R.do D. Joannes Fran.co Gardo di Policastro, i seguenti animali: 4 “vacche” ed 1 “jenca” di nome “Juvencella, Caterina, lumbardella, et vitronca la Jenca, et l’altra palumbella”, 4 “Vitellazze femmine” ed uno “Mascolo”, tutti ferrati “alla gruppa destra” del ferro di detto Andrea, escluso “Juvencella” ed un “bove” chiamato “amoruso”, ferrati del ferro di D. Gio: Paulo Mannarino, oltre ad altri 4 “bovi” ferrati “alla gruppa destra” del ferro di detto Andrea chiamati “falcune, Pardino, lumbardo, et amoruso”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 302, ff. 038v-039.

31 marzo 1639. Lo U.J.D. Marco Ant.o Guarano di Policastro, donava al figlio chierico Antonino “un paro di bovi”, il primo ferrato del ferro di D. Antonio Guarano, “con uno .G. alla gruppa” e l’altro ferrato del ferro di Gio: Petro Scandale. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 306, ff. 040v-041.

19 aprile 1639. Fran.co Antonio de Mauro di Policastro, donava a D. Joannes Dominico Fiorilla di Policastro, 5 “boves”: due ferrati “alla gruppa” con il ferro del C. Leonardo Caccurio, uno ferrato del ferro del quondam Alfonso Jerardo, un altro ferrato “alla gruppa destra” del ferro di Donno Gio: Paulo Mannarino, e l’ultimo ferrato del ferro di Gio: Thomaso Tronga. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 80 prot. 306, ff. 041v-042.

[cxxi] 04 marzo 1626. Quattro “bacci domiti” ferrate alla “coscia destra” con il ferro del Cl.o D. Ottavio Vitetta di Policastro. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 022v-025.

29 novembre 1633. Un “Jovencum ferratum in coscia destra” del ferro “delli voni” della Roccabernarda. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 300, ff. 115-117.

06 luglio 1643. Felice Torres di Policastro, con il consenso di suo marito Petro de Paula, vendeva al chierico Carulo de Paula di Catanzaro, al presente commorante in Policastro, 58 “Animali Baccini” ferrati in parte con il “ferro” del quondam Ottavio Vitetta “alla coscia di dietro con uno .P.”, ed in parte con il “ferro” del quondam Gio: Thomaso Tronga: 13 “Vacche figliate”, 19 “stirpe”, 6 “Jenchi di dui Anni in trè”, 6 “Jencharelle dell’istesso tempo”, 6 “Vitellazzi”, 7 “Vitellazze” ed 1 “Tauro grosso”, per la somma di ducati 389. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciro, Policastro, Busta 182 prot. 802, ff. 066-067.

[cxxii] 19 giugno 1630. Per consentirgli di ascendere agli ordini sacri, i coniugi Mattio Berardo e Marina Polla di Policastro, donavano al Cl.o Bartolo Berardo loro figlio, alcuni beni tra cui: “un paro di bovi domiti”, uno di nome “gratiuso di pilatura bianca Cornatura Castellina ferrato a manco” del ferro di donno Gegnaovo Aquila, l’altro di nome “pardino” ferrato del ferro del Cl.o Ottavio Vitetta “di pilatura nigra Cornatura pardina ferrato alla Coscia”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 297, ff. 117-118.

[cxxiii] 29 novembre 1655. Per consentirgli di ascendere all’ordine sacerdotale, Michaele Aquila di Policastro donava al figlio Cl.co Gio: Dom.co alcuni beni tra cui: 29 vacche “in ferro”, 18 delle quali ferrate con il ferro del quondam D. Gio: Jacovo Aquila, mentre 1 toro ed altre 11 erano ferrate con il ferro di detto Michaele. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Policastro, Busta 196 prot. 880, ff. 198v-200.

[cxxiv] 30 maggio 1633. Alla dote di Anastasia Zidattolo di Policastro appartenevano due vacche figliate “sferrate” di nome “leggera” e “Cosentina” entrambe “di pilo pardino”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 300, ff. 033v-034.

[cxxv] 22.09.1636. Il Cl.o Innocentio, Antonio, Dianora, Camilla e Feliciana Accetta, fratelli e sorelle di Policastro, figli ed eredi della quondam Innocentia Fera, erano debitori nei confronti di Petro Curto di Policastro per ducati 30 per la vendita di un “bove” di “pilatura niorazza”, ovvero “di pilo nigrazzo senza ferro” di nome “pardino”, appartenuto a Paulino Juliano. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 303, ff. 123-126v.

[cxxvi] 06 marzo 1624. Per consentirgli di ascendere agli ordini sacri, Joannes Poerio de Alfonso di Policastro, donava al Cl.o Joannes Alfonso Poerio figlio di Hijeronimo Poerio, i seguenti animali: 2 “vacche annicchiariche, scerrate” una di nome “Caterina” e l’altra “lumbardella” di “pilatura pardina”, due “vacche stirpe” ferrate del ferro del quondam D. Aniballe Callea “alla gruppa destra” una di nome “Innocentia” e l’altra “Camilla” ed una “jenca stirpa scerrata” tutte della stessa pilatura. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295, ff. 017-018.

14 maggio 1636. Fran.co Larosa di Policastro donava a D. Joannes Jacobo de Aquila di Policastro “eius advuncolum”, 5 “vacche figliate”: “Lucretia”, ferrata con il ferro di Pietro Antonio Visciglio di San Mauro, “gratiusa scerrata”, “Cucuzzella scerrata”, “pardinella scerrata” e “mercorella” ferrata del ferro “delli ammanniti”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 80 prot. 303, ff. 054v-055.

[cxxvii] 17 dicembre 1633. Il Cl.o Ottavio Vitetta di Policastro, assieme al dottor Vespesiano Cosentino, il 05 aprile 1627 aveva venduto a Giustoliano Cozza del casale “delle piane”, pertinenza di Cosenza, 6 “Jenchi” ferrati del ferro di detto chierico e “bullati con la pp.a bulla di esso Cl.o” per il prezzo di ducati 75. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Policastro, Busta 79 prot. 300, ff. 124v-125.

[cxxviii] 14 dicembre 1644. Joannes Alphonso Campitello di Policastro donava al chierico Ferdinando Campitello suo figlio 100 “Vaccas cum foentibus eas sequentibus”, ferrate “alla gruppa destra et alla mascilla manca con uno C”. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Policastro Busta 182 prot. 803, ff. 131-133.

[cxxix] ASCZ, Fondo Notarile busta 338, anno 1700, ff. 60-63.

[cxxx] 05 ottobre 1586. Cirò. “con una orechia fiaccata a tridente appendino et laltra orechia fiaccata: laltro boe pardino nigro ferrato à destro appendino”. ASCZ, Notaio Consulo B., Cirò, busta 9, f. 212v.

11 settembre 1588. Cirò. “uno genco di due anni in tre, di pilatura pardina, ingannone, di persona bassa, cugnotto, lumbardello, non ferrato, ma al presente ferrato dal ferro di d(ic)to fran.co, con li orecchie singato del singo, sinc.e credeno di d(ic)to ms Gio Filippo, quale genco nel medesmo mese essi venderno al d(ic)to fran.co candioto per docati sette”. ASCZ, Notaio Durande G. D., Cirò, busta 35, f. 507.

[cxxxi] ASCZ, Notaio Cadea Cesare, Cirò busta 6, ff. 162-162v.

[cxxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 295 ff. 008v-010.

[cxxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Policastro, Busta 79 prot. 296, ff. 173v-174v.

[cxxxiv] Copia redatta il 17 settembre 1579 del testamento di Jerolimo Petra Santa del 09 marzo 1576 stipulato “In Casalis Rayette”. “tre [bov]i domiti luno no(min)e lumbardo et laltro paladino et laltro palumbo Item lassa una vacca domita no(min)e Autera et pio due Altre vacche sarvagie et de pio unaltra vaccha sarvagia no(min)e castellana”. AASS, 001A.

[cxxxv] 25 novembre 1585. Umbriatico. Animali appartenuti al quondam Ettore Marino: “bache figliate videlicet: lumia : columbrella : fagorita : scavella : fasana : infusina : coscarella : rindina : minica : Bella donna : ant.a : rosa : pardinella : saracina : gratiusa : fronduta : Andarina : russana : culumbra : palumba : merulina : verdeauliva : contegnusa : spagnola : viola : pergula : reversa : castellina : caccavella : cudarvella : montagnola : mala spina : burrella : vaira : cornilia : narginara. “Bache stirpe: francisca : pandella : laurencella : capuana : scantina : cotugnella : amorosa : saporita : monaca : germana : anatrella : massarella : virgarella : squitata : paula : chiusula : vatinia : quagliuza : pisenpa : arangella : angilella : bufalella. Jenche tridici de li dui anni in tre Jenchi quattordici de li dui anni in tre octo vitellazi una bacca crepentata et lo corio pervene a dicti heredi octo jencaruni (…) et in alia jencheroni de li tre anni : et una morta alla petra de caroconissa di male presente giovanne vermicciolo lo corio dela quale pervene in potere di essi heredi : undici vitellazi de uno anno et unaltra mangiata de li lupi a dì 18 di aprile”. ASCZ, Notaio Consulo B., busta 9, ff. 152-153.

[cxxxvi] 13 maggio 1635. Nei mesi passati, Andria Rizza de Ottavio di Policastro, aveva venduto per 200 ducati al R.do D. Joannes Fran.co Gardo di Policastro, alcuni animali tra cui: 4 “vacche” e 1 “jenca” di nome “Juvencella, Caterina, lumbardella, et vitronca la Jenca, et l’altra palumbella”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 302, ff. 038v-039.

[cxxxvii] 02 febbraio 1624. Un “bove” di nome “Ceraso”, “fronte rossa pilatura bianca”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295, ff. 008v-010.

[cxxxviii] www.treccani.it

[cxxxix] Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, 2010.

[cxl] Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria, 2010.

error: Contenuto protetto