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LA COLTIVAZIONE DEL LINO NEL CROTONESE

L’Agricoltura calabrese raccontata attraverso le fonti storiche

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Campo di lino in fiore (da lottini.it).

“Questa carta e di pezza / Questa pezza e di lino / Questo lino e di linusa /Questa linusa e di terra / Questa terra e di Dio / Questo e il libro mio.” (Annotato manualmente sul foglio di guardia di un breviario ecclesiastico a stampa, 1881).

Importanza e diffusione

La coltivazione del lino (Linum usitatissimum L.) fu praticata diffusamente in tutto il Crotonese fin dai tempi antichi, come attestano numerose testimonianze scritte e materiali. In una descrizione del territorio di Melissa della metà del Cinquecento, si legge: “lo territorio de Melissa è bono fertile, et fertiliss.o, atto ad ogni sorte de massaria de grani, horgi, lini, fave, bambace, et ogni altra sorte de ligumi”,[i] mentre in un apprezzo della città di Santa Severina della seconda metà del Seicento, così è descritto il suo territorio: “consiste in terre seminatorie, erbaggi, oliveti, boschi di cerse e lecine, però poche vigne … Gli abitanti poi fanno lino, grano orzo, legumi d’ogni sorte, quali vettovaglie servono per loro e l’avanzo lo smaltiscono a forestieri”.[ii]

All’inizio dell’Ottocento il viaggiatore Craufurd Tait Ramage notava, guadando presso la foce del Tacina, che nel fiume “scorreva una considerevole quantità di acqua”. Aggiungeva: “fui sorpreso di trovare un gruppo abbastanza numeroso di donne, e, non vedendo nessun paese nelle vicinanze, chiesi da dove venivano. Mi indicarono un paese su nelle colline distante circa otto chilometri. Stavano candeggiando del lino e sembravano allegrissime quando io giunsi in mezzo a loro”.[iii]

Giovan Francesco Pugliese nel suo “Cenno sul comune di Crucoli”, ricorda che gli abitanti sono “tutti quasi laboriosi, ed industri, versandosi principalmente alla semina de’ cereali, e non trascurando la coltivazione del lino”, ed aggiunge che le donne “mietono, e legano i manipoli, coltivano e preparano il lino; spiritose, e attive si distinguono fra le Italiane della contrada, e gareggiano se non superano le Albanesi”.[iv]

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Semi di lino (“linusa”). Foto da smartfood.ieo.it

Per la sua importanza legata all’ampia diffusione dei prodotti tessili realizzati con la sua fibra, sia il seme di lino che la fibra vegetale, compaiono ricorrentemente negli inventari delle case, come riferiscono alcuni atti, di seguito riportati a titolo d’esempio.

Tra i mobili lasciati agli eredi dal crotonese Scipione Calegiurio all’inizio del Seicento, troviamo che in “uno cascione di tavola vecchio”, vi erano “diece pise di lino, et sette altre pise di lino “era “acconciato infilato”.[v]

29 novembre 1642, Policastro. Il notaro si reca nella “Domum suae solitae habbitationis” di Anastasia Recine, vedova del quondam Andrea de Albo, morto nei giorni passati, per procedere all’inventario dei beni del morto, tra cui furono elencati: un “tilaro”, e due “sacchi de lenusa di quattro tumula incirca”.[vi]

19 ottobre 1648, Policastro. Il notaro si porta nella casa del R. D. Salvatore de Maijda, nella quale il quondam Gerolimo Coco aveva abitato con sua moglie Elisabetta Maijda, per proseguire e finire l’inventario già precedentemente iniziato. Nel catoio, tra le altre cose, furono trovati: “uno sportunello con certa linusa di dentro con tt.a quattro incirca”, e “sedici pise de lino incirca”.[vii]

26 gennaio 1649, Policastro. Su richiesta di Giuseppe Bruno, tutore del quondam Giacinto Cavallo, il notaro si porta nella casa di quest’ultimo, posta dentro la terra di Policastro, “nella ruga del fumarello”, per effettuare l’inventario delle robbe appartenute al morto. Tra le cose inventariate furono trovate “tre pise di lino”.[viii]

28 settembre 1654, Policastro. Nel proprio testamento, rogato nella sua domus posta dentro la terra di Policastro, nel convicino della chiesa parrocchiale di S.to Nicola “Grecorum”, Catharina Cepale dichiara di avere in casa “due pise di lino”.[ix]

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“Modo d’insaccare il lino” Illustrazione contenuta in Treco G. B., Coltivazione e governo del lino marzuolo, Vicenza 1792 (da bourlot.it).

I prodotti

I panni di lino, al pari di quelli di lana, costituivano la dote solita di ogni sposa.[x] Con la tela di lino,[xi] nell’ambito del loro lavoro familiare, le donne dei centri del Crotonese, similmente a quelle di Cosenza e dei suoi Casali, dove si lavoravano “Cottuni, Tele et altre robe bianche et altre simili”,[xii] realizzavano diversi capi di biancheria, come si riferisce in merito a quelle di Scandale: “Le donne Civile si esercitano al cusire … lino lane bambace et tesseno tele”,[xiii] producendo, ad esempio, lenzuola,[xiv] che potevano essere variamente ricamate (“lenzola di lino alli dudici pinti ad aco”),[xv] o anche coperte.[xvi] Descrivendo il casale di Savelli e la terra di Verzino, il tavolario Giuseppe Pollio nel 1760 così si esprimeva: “Le donne parimenti son massare e da bene, che applicano a filare e tessere tele di lino, e panni di lana e a far calzette, pezzillo e cusciniere …”.[xvii]

Anche se le corde erano generalmente fatte con il “Cannavo”, ossia la Canapa (Cannabis sativa L.),[xviii] per alcuni tipi era utilizzato il lino. È il caso delle corde “carraricze” fatte di lino,[xix] mediante le quali si provvedeva a legare ed assicurare il carico sui carri. Nell’agosto del 1541 a Crotone, si rileva un pagamento “per lo prezio de pisi sei de lino ad ragioni de grana 25 la pisa sendi sonno fatti sei carrarizi”.[xx]

Vi erano poi i tanti paramenti sacri utilizzati nelle chiese, come evidenzia, ad esempio, questo passo dell’inventario della chiesa della B. V. di Capo Colonna presso Crotone, fatto il 26. Giugno 1839: “Due coscini di madramma, e tre tovaglie, una sotto un po’ vecchia, e l’altre due in buono stato tutte di lino. (…) Due tovaglie una di lino e l’altra di cottone fatta da moltissimi anni addietro. (…) Tre tovaglie, due di lino ed una di cottone, anche fatta da molti anni, ed una di lino un po’ consumata. Una tovaglia per sopra i gradini dell’Altare Maggiore di cottone senza pizzo. Conservati nel cassone vi sono cinque tovaglie di cottone con riccio, in buono stato. Due tovaglie di lino nuovi.”

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Petilia Policastro (KR), donne intente alla tessitura (dalla pagina fb “I Ricordi dei Petilini Emigranti”).

Considerato un bene mobile di sicuro valore, il lino ricorre tra le doti che accompagnano la sposa al matrimonio, sia allo stato vegetale (“pise di lino”, 1 pisa circa 800 gr),[xxi] sia come “strattuni di filato”. Il 17 aprile 1634 in Policastro, in occasione del “matr.o de futuro, et de p(rese)nti” contratto nei giorni precedenti, Lisabetta Natale di Policastro aveva promesso al suo sposo, Andrea Lanzo di Policastro, i beni della dote contenuti nei capitoli matrimoniali. Al presente avviene la loro consegna, tra cui risultano: “undici strattuni di filato di manna”, “dui strattuni di filato alli sette di lino”, “sei libri di vambace”, e un “tilaro novo”.[xxii]

Non mancano poi i casi in cui la “tela di lino” assume valore monetale in occasione di alcuni pagamenti. Il 22 settembre 1634, in Policastro, Joannes Ant.o Altomare di Policastro, vende a Isabella Caputa, sua zia di Policastro, la “Cameram parvam seu picciola” che gli era stata lasciata dalla quondam Margarita Caputo, posta dentro la terra di Policastro nel convicino di Santa Maria “gratiarum”, per il prezzo di ducati 10. Di questa somma ducati 6 sono pagati in tanta “tela di lino”, ossia canne 12 alla ragione di carlini 5 la canna.[xxiii]

Anche nel caso di un pagamento dovuto al signore feudale di Cotronei, da parte dei cosentini Alterio Capisciolto e Gio: Fran.co Franco che, per l’annata 1633-34, avevano preso in affitto le entrate “delli Cotronei”, troviamo che tale pagamento si realizzò consegnando una determinata quantità di beni, tra cui diversi generi di “filato”, stimati da due “esperte donne massare”: donna Jacova Virga e Dianora Morano. Il 26 aprile 1634, in Cotronei, il Sig.r Fran.co Valasco, procuratore generale di don Berardino Montalvo, reg.te, balio e tutore del Sig.r D. Horatio Sersale, barone delli Cotronei e Carfizzi, riceve da Alterio Capisciolto “affittatore al p(rese)nte delli Cotronei”, i seguenti beni: 18 libre di “banbace seu guttune” alla ragione di carlini 2 la libra, 17 libre di “filato di banbace seu guttune” alla ragione di grana 25 la libra, e 26 libre e ½ di “filato di lino orduto” stimato per ducati 6.[xxiv]

Sono anche molto ricorrenti i casi in cui la tela di lino risulta lasciata per testamento. Il 23 luglio 1646 in Policastro, su richiesta di Sancto Misiano di Policastro, il notaro si porta nella sua casa posta dentro la terra di Policastro, nel convicino della chiesa parrocchiale di S.to Nicola “de Grecis”, per stipulare il suo testamento. Tra le altre cose, il testatore lasciava a Giovanna Capuana sua “Cog.ta”, due canne “di tela de lino”.[xxv]

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Telaio in una casa di Umbriatico (KR).

La coltivazione

Solitamente, i coloni che nel Crotonese prendevano in fitto i terreni per la semina, oltre al grano, ma in misura minore, seminavano pure altri cereali come l’orzo, leguminose da granella quali fave, ceci, ecc., e anche alcune tomolate di lino, cotone, canapa, ecc., per uso domestico-familiare.[xxvi] Accadeva così che l’andamento del raccolto del lino seguiva quello delle altre coltivazioni. In un rendiconto delle entrate relative all’anno 1715 dell’aristocratica crotonese Anna Suriano, è annotato che: “Il lino sementato in d.a massaria (di Poerio) si perdè, come si persero tutti gl’altri”.[xxvii]

Una platea in cui sono annotati i conti relativi alle entrate e alle uscite del monastero florense di Santa Maria di Altilia, presso Santa Severina, registrate tra il primo settembre 1490 e ultimo di agosto 1491, ci consente di avere un’idea circa l’indirizzo della produzione agricola del tempo in questo territorio. Da questo documento apprendiamo che, oltre ai cereali e alle leguminose da granella, gli affittuari dei terreni del monastero messi a semina, corrispondevano ai monaci a titolo di “terragio”, anche una certa quantità di altre produzioni tipiche della zona,[xxviii] a cominciare dal lino che, durante l’annata corrente, fruttò loro: 1 quarto di “linusa” da Antonio de Amato, e 2 quarti ciascuno da Antonio Baccari, Dominico Russo e Matteo Guardata. Sempre a titolo di terraggio, quest’ultimo corrispose al monastero anche 1 quarto di sesamo (“jurgulena”) che aveva coltivato nelle terre di “mogana”[xxix] in territorio di Santa Severina.

Per quanto riguarda la collocazione di questi prodotti, tomoli 1 e quarti 3 di questo seme di lino (“linusa”), furono venduti al prezzo di grana 10 il tomolo a Petro Benincasa dei Casali di Cosenza.[xxx] Ad una certa Dialta invece, furono vendute 8 “pise” di lino a 10 grana la pisa, mentre un’altra pisa fu venduta a Composta de Cefero allo stesso prezzo. A più persone di Paterno furono vendute anche 19 “pise” di cotone (“bambachi”), per il prezzo di carlini 11 e ½, mentre la canapa (“cannapo”) ricevuta dagli affittuari, era rimasta ancora tutta invenduta nei magazzini.[xxxi]

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Coltivatori di lino in Sila (foto fornita da Franco Daddo Scarpino).

Le produzioni principali di tale economia ricorrono più tardi anche nei conti della massaria di Giuseppe Micilotto che, nel 1760, prese in fitto le terre dette “Li Miccisi” in territorio di Crotone, dal monastero di Santa Chiara di Cutro e dal cantore cutrese Domenico Bona, seminandovi 250 tomoli di grano, 8 di linusa, 1 ed ¼ di fave e 3 di orzo. A causa della cattiva annata egli ricavò solamente 493 tomoli di grano, 6 di orzo, 1 e ½ di fave, nonché 3 tomoli di linusa e 29 pise di lino.

In questa occasione, la descrizione analitica di tutte le spese sostenute, ci consente di conoscere dettagliatamente tutte le operazioni culturali necessarie per ottenere questo misero raccolto: “Per costruire il pagliaro per servizio di d.a massaria, per pure giornate d’uomini, oltre legname, docati nove. Per roncare la sud.a gabella, giornate d’uomini num. trecento trenta. Per ammaesare la sud.a gabella, cioè scipare, dubrare, interzare, e tt.a novanta inquartate, paricchiate di bovi num. novecento sessanta. Per fare una gambetta, giornate di vanghiero num. diece. Per roncare li majsi, giornate d’uomo num. cinquecento ottanta otto. Per sementare li sud.i majsi, parecchiate di bovi num. trecento ed otto. Per adaccare giornate d’uomo num. duecento sessanta. Per trasporto delli sud.i tumula duecento cinquanta grano, tt.a otto linusa, tt. Uno e un quarto favi, e tt.a tre orzo, da Cotrone alla gabella, docati diece. Per zappoliare i lavori, giornate d’uomini num. cinquecento trenta due. Per nettare il lino giornate di uomo num. ventisei. Per sfellorazzare i lavori, ed ammaesare le fave giornate d’uomo num. sessantanove. Per scorrere li med.i giornate d’uomo num. trecento novanta. Per sciuppare il lino speso carl. ventinove. Per rampare, e nettare l’aria speso docati quattro e grana diece. Per sciuppare le fave g.te d’uomo num. quattro. Per sei mesate di guardiano per custodire d.i lavori pagati a Nicola Russo di Pietrafitta, docati dieceotto. Per tante giornate pagate a mietitori e ligatori per mietere e ligare d.a massaria doc.ti cento diecesette, e grana trenta. Per le spese cibarie occorse in mietere d.a massaria, essersi consumate la seg.te robba: Grano tt.a trentadue, Vino barili quarantauno. Aceto barili due. Formaggio pezze cinquantaquattro. Oglio militra tre. Foglia carlini trenta tre. Sale rot.a diece, e pecore num. quindeci, e per macinare sud. grano, sale, frasche, e fattura del pane docati diece. Per carrare la gregna giornate di carro num. quaranta quattro. Per trasportare la robba da mangiare alli mietitori, ed acqua alli med.i giornate di carro num. diecesette. Per triturare la gregna trizze di bovi num. ottanta. Al mietere, ed all’aria, giornate d’uomini oltre li mietitori, e li ligatori num. Trecento trenta otto, che pagati a diversi prezzi in tutto ascesero a doc.ti settanta quattro e grana ottanta sette. Per trasporto di tt.a quattrocento novanta tre grano ricavato nella prossima passata raccolta dalla sud.a massaria, dall’aria al magazino, doc.ti quattordici e grana settantanove. Per trasportare il lino alla Vurga, ed indi riportarlo giornate di carro num. quindeci. Per scacciare, e purgare d.o lino doc.ti undeci e grana sessanta. Per il soldo pagato al massaro in tutto docati sessantauno e grana cinquanta. Quali sud.e giornate di uomini come sopra descritte, pagate volta per volta a raggione di grana quindeci la giornata”.[xxxii]

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Coltivatori di lino. Illustrazione contenuta in Treco G. B., Coltivazione e governo del lino marzuolo, Vicenza 1792 (da bourlot.it).

La tecnica colturale e quella di lavorazione

Seminato agli inizi della primavera, dalla fine di febbraio a tutto il mese di marzo,[xxxiii] ma anche a volte in autunno, da ottobre a dicembre, nelle prime fasi della coltivazione il “sementato” del lino necessitava di essere zappettato per controllare le infestanti. Il primo giugno 1629, nel proprio testamento, il chierico Gio. Thomaso Campana di Policastro, dichiarava di aver seminato in comune con il chierico Salvatore Rotella, tomola 3 di “lenusa” e 5 mezzalorate di “grano”, nel loco di Policastro detto “lo passo dello Ceraso”. Lasciava quindi all’erede l’onere di pagare “la spisa del Zappolijare, et nettare” necessaria “per lo lino, et grano”.[xxxiv]

Giunti i fiori a maturazione alla fine di maggio – inizi di giugno, e giunta a termine la coltura affidata agli uomini, che “si occupano quasi tutti alla coltivazione de’ grani, e dei lini”, si provvedeva alla raccolta, ossia a “scippare il lino”,[xxxv] formando con le piante dei covoni lasciati per un paio di giorni sui campi, dando inizio alle diverse fasi della lavorazione di questa pianta, che era praticata dalle donne.

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“Strappare il Lino”. Illustrazione contenuta in Treco G. B., Coltivazione e governo del lino marzuolo, Vicenza 1792 (da bourlot.it).

Ciò iniziava con la separazione dei semi dagli steli delle piante. Questi ultimi erano trasportati con i carri “alla Vurga”, dove venivano sottoposti a macerazione per immersione in acqua stagnante, da una a tre settimane, allo scopo di sciogliere per fermentazione le lamelle pectiche, che legano la fibra. Questi luoghi detti “Vurghe”, erano soprattutto acquitrini alle foci dei fiumi e dei torrenti, e ristagni naturali, o fatti dall’uomo, nei valloni e nelle anse dei corsi d’acqua. Agli inizi del Cinquecento, al tempo del conte di Santa Severina Andrea Carrafa, l’esistenza delle vurghe per la macerazione del lino è richiamata tra i confini del feudo di Le Castella: “Incipiendo a littore maris ubi ponit vallonus dittus de cucuriaci alias la burga de lo lino et per dittum vallonum ascendendo ferit ad molendinum Pauli Marrelli”.[xxxvi] Ancora oggi il torrente “Pilacca” che separava il territorio di Isola da quello di Le Castella è conosciuto con il toponimo “Vorga”.

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Contadini in Sila intenti ad estirpare le piante di lino separandone il seme (foto fornite da Franco Daddo Scarpino).

Numerosi altri toponomi sparsi per tutto il Crotonese e la Sila, come “Vurgarotunda”, “Vurgadanno”, “Borgaseccagna”, “Borganegra”, ecc., ancora oggi ricordano quanto numerosi erano i luoghi dove veniva fatto fermentare il lino, e come erano numerosi e vasti i pantani ed i luoghi paludosi presenti presso i fiumi ed i torrenti del Crotonese.

Tra i “Beni Demaniali Spettanti al Beneficio di S. Giovanni di Belcastro” esistenti in Andali (1795), risulta le terre dette “Ciaramidio o Fossa di Sarcone”: “Terreno Corso della estensione di tumolate Dodeci porzione aratoria, e porzione pietroso. Vi è in esso La fornace per Cuocere embrici, Tegole, e mattoni, e numero Cinque Borghe per uso di macerarsi il Lino.”[xxxvii] In un “Notamento delle Trazze, viarelle e fonti comunali dello Territorio di S. Mauro” (1801): “Sono comunali li Prati della Columbra e dalla valle della Acqua, come ancora sono comunali le gorne dello Cafone di Pericet(to) e di Jofalo, ove si ci abburga il lino”.[xxxviii]

Considerando che il ristagno dell’acqua d’estate nei pressi degli abitati fu una delle cause principali del diffondersi della malaria, si può immaginare, con l’aumento della coltura del lino nella prima metà del Settecento e l’estendersi dei luoghi dove avveniva la sua macerazione, come aumentò questo stato di malessere. Tale fenomeno è rilevato acutamente dal vescovo di Strongoli Ferdinando Mandarani (1741-1748), il quale descriveva la città di Strongoli come particolarmente esposta alle infermità. Egli individuava tra le cause il lento e paludoso torrente Brausio, che scorreva presso l’abitato. D’estate esso emetteva pestilenziali e micidiali esalazioni, e tale situazione malsana si aggravata dall’agire degli stessi abitanti, in quando essi avevano cominciato a macerarvi il lino.[xxxix]

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Donne intente a “Pestare il Lino”. Illustrazione contenuta in Treco G. B., Coltivazione e governo del lino marzuolo, Vicenza 1792 (da bourlot.it).

 

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Donne che sfibrano il lino durante il loro lavoro invernale. Miniatura medievale dal Libro delle Ore (foto da tramedistoriahandmade.com).

Ottenuto un parziale sfibramento attraverso la macerazione nell’acqua stagnate delle “vurghe”, gli steli erano trasportati alla “linata”, uno spiazzo dove rimanevano qualche giorno ad asciugare esposti al sole. All’inizio del Settecento, in territorio di Isola, esisteva un luogo detto la “linata di Santa Barbara”, dove veniva portato il lino, dopo che era stato “scippato”.[xl]

Qui lo sfibramento era completato attraverso la “scotolatura”, realizzata battendo gli steli con “scotole” di legno, o mediante l’ausilio del “mangano”, in maniera da “scacciare” detti steli, e realizzare così il completo distacco della parte legnosa dalle fibre di lino. Nel dicembre 1628, Gio. Domenico Arrichetta di San Mauro, ricorreva all’arcivescovo di Santa Severina contro quanti, tra le altre cose, gli avevano rubato il lino, “tanto dall’acqua, quanto dallo mangano”, sottraendogli anche “giorgiulena scotolata” (sesamo), e “danniggiatoli il miglio seminato, ciceri, e bambace.”[xli]

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Coltivatori di lino in Sila (foto fornita da Franco Daddo Scarpino).

La fibra grossolana era quindi “cardata”, così da separare quella più lunga, destinata ad essere filata, da quella più corta e arruffata, di scarto, destinata ad altri usi (imbottiture, ecc.). Il 20 luglio 1624, in Policastro, dietro l’istanza di Lidonia Morello di Belcastro, vedova del quondam dottore Joannes Agostino de Cola di Policastro, il notaro si recava nella casa dove aveva abitato quest’ultimo, posta dentro la terra di Policastro, per fare l’inventario dei beni del morto. Tra i beni inventariati troviamo: “sei pise di lino Cardato, et di Cardare manna et Stuppa”.[xlii]

A questa operazione realizzata dalle donne tra le mura domestiche, seguivano quelle della filatura e della tessitura, similmente alla lavorazione riguardante altre fibre, usate per realizzare indumenti di lana rustica, di cotone, o di ginestra, nell’ambito dell’economia familiare. Risultano quindi spesso presenti nelle case: l’“animolo con lo pede” per raccogliere il filo filato con il “fuso”, e il “tilaro con li lizzi, et pettini” per tessere.

L’otto maggio 1634 in Policastro, davanti al notaro comparivano i coniugi Gio: Vicenso Caira e Passidia Mazzuca di Policastro, assieme a Battista Mazzuca di Policastro, per la consegna da parte di quest’ultimo, dei beni appartenenti alla dote promessa. Tra questi beni figurano: “Uno tilaro con li lizzi, et pettini”, “uno animolo con lo pede”, e “Cinque strattuni di filato di lino di stuppa”.[xliii]

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Petilia Policastro (KR), donne al lavoro con il fuso e l’animolo (dalla pagina fb “I Ricordi dei Petilini Emigranti” – Fotoraccolta Mimmo Rizzuto).

Commercio del lino

La maggior parte del lino prodotto nel Crotonese, era di solito sufficiente per l’uso ed il consumo locale, anche se non mancano documenti che provano sia il commercio,[xliv] che l’esportazione, specie della “manna” di lino, cioè della qualità migliore, differente dalla “stuppa” di minor valore, in particolare dal territorio di Strongoli, per opera e conto soprattutto del feudatario del luogo. Nel 1695 i patroni Gio. Bova di Messina e Paulo Cafioti, noleggiano le loro feluche a Gioseppe Morisco e Domenico Rogano, i quali fanno imbarcare manna nella marina di Strongoli. La manna dovrebbe essere portata a Livorno e con il ricavato il Morisco ed il Rogano avrebbero dovuto comprare della merce, da riportare con le stesse feluche a Strongoli. Salpate dalla marina di Strongoli, una delle due barche va contro gli scogli del Capo delle Colonne “e si fece in mille pezzi”. Tuttavia, la nave superstite proseguì con il suo carico di manna verso Livorno, “non ostante che il S.r D. Michele Pignatelli l’havea inviato imbasciata nel Capo Colonne che con il resto di detta manna fossero andati in Messina”.[xlv]

L’introduzione sul mercato locale di lino proveniente da altre zone era tassata. I forestieri che volevano vendere lino, o cotone, nel territorio di Le Castella, agli inizi del Cinquecento dovevano pagare la tassa di un carlino, che si dividevano equamente il feudatario e il sindaco del luogo: “Jus Catapanie. Item Dittus baiulus habet jus catapanie quae exigitur hoc modo videlicet ab hesteris et advenis. (…) item pro ad justatura belantiarum magnarum ad vendendum linum et banbacem solvitur ab hesteris carlenum unum equaliter dividendum ut s.a.”[xlvi]

Ancora alla metà dell’Ottocento le terre seminate a lino e cotone in territorio di Cirò, erano stimate dell’estensione di circa 50 moggi, e sono segnalate estrazioni via mare di discrete quantità di semi di lino e di lino grezzo, dagli imbarchi di Torretta di Crucoli, Baracca del Caricatoio di Cirò, Torre di Melissa e Purgatorio di Strongoli, dirette soprattutto verso Reggio, Castellamare e Napoli.[xlvii] In seguito la coltivazione decadde tanto che, all’inizio del Novecento, era quasi scomparsa, come si ricava da uno studio sulla valle del Neto: La “coltura del lino e della canapa in tempi non lontani veniva specie il lino, largamente e con molta competenza coltivata dalle popolazioni locali ed era in grande onore il telaio nelle nostre case”.[xlviii]

Note

[i] ASN, Fondo Pignatelli Ferrara, Fasc. 51 bis, Prat. 100, f. 2v. Sempre nello stesso periodo tra le spese sostenute dall’università di Melissa troviamo l’acquisto di “due pise de lino per darle alla femina delo cuntatore” da Cola Russo per carlini 12. ASN, Conti Comunali, Fasc. 199/5 (a. 1561), f. 6.

[ii] Un apprezzo della città di Santa Severina, in Siberene, Cronaca del Passato per la Diocesi di Santa Severina, p. 123.

[iii] Ramage C.T., Viaggio nel regno delle due Sicilie, De Luca 1966, p. 62.

[iv] Pugliese G. F., Descrizione ed Historica narrazione di Cirò, Napoli 1849, Vol. II, pp. 255, 264.

[v] Nel magazzino degli eredi Calegiuri vi erano: “grano tumula cinquanta et orgio tumula trenta, ciceri rumula doi, linusa tumula sei”, mentre “dieci salmate fra maijsi et scigature” erano nella gabella detta “la Volta d’Armeri”. ASCZ Busta 113, anno 1614, ff. 68-71.

[vi] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 121v-123.

[vii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 93-94v.

[viii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 13v-15.

[ix] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 129v-130v.

[x] 23 marzo 1620, Policastro. Davanti al notaro compaiono Marco Ant.o Cavarretta di Policastro e Mattio Cavarretta di Cotrone ma, al presente, abitante in Roccabernarda, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra il detto Mattio e Cornelia Cavarretta, figlia di detto Marco Ant.o. Tra i beni della dote, figurano panni di lino, lana e seta. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 292, ff. 16-17.

[xi] 26 maggio 1624, Policastro. Lisabetta Natale di Policastro consegna a Joannes Coschienti di Policastro, i beni dotali che, nei giorni passati, gli aveva promesso in contemplazione del loro matrimonio, tra cui: “sei canne di tela alli dudici di lino”. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 35-36.

[xii] Cancro M., Privilegii et Capitoli della Citta de Cosenza et soi Casali, concessi dalli Serenissimi Re de questo Regno de Napoli confirmati et di nuovo concessi per la Maiesta Cesarea et la Serenissima Maieta del Re Philippo Nuostro Signore, Napoli 1557, p. 31.

[xiii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 31 A, f. 29.

[xiv] 4 agosto 1630, Policastro. Davanti al notaro compaiono Joannes Dom.co Crocco di Policastro e Fran.co Rocca di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Francisco e Vittoria Crocco, figlia di detto Joannes Dom.co. Appartenevano alla dote delle “Lenzola di lino”. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 127-129. “Uno altro lenzolo di tila di lino alli otto di Canna quattro meno due braccia Sempia a carlini tre la canna aprezzato d. 1.0.12 ½. Uno lenzolo di tela alli diece di lino di Canne quattro meno dui palmi a carlini cinque la canna d. 1.4.7 ½ (…) Uno lenzolo di tela alli undici di lino di Canne Cinque meno uno braccio à Carlini Cinque, et mezo la canna d. 2.3.0.” ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, busta 80 prot. 301, ff. 83-83v.

[xv] 5 maggio 1622, Policastro. Davanti al notaro compaiono il magister Fran.co Commeriati di Policastro ed Antonio Faraco di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Antonio e Julia Conmeriati, figlia del detto Fran.co. Appartenevano alla dote delle “lenzola di lino alli dudici pinti ad aco”. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294, ff. 19v-21.

[xvi] 10 dicembre 1624, Policastro. Fran.co Peres de Arzilla “Ispaneo”, “Conmorantis” in Policastro, dona a Joannes Antonio Peres de Arzilla suo figlio, e ad Anna Cancella “eius matrem”, diversi panni e mobili tra cui una coperta di lino. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 84-85.

[xvii] ACS, Pollio G., Apprezzo del feudo di Verzino (1760), pp. 86, 124.

[xviii] “75 pise de Cannavo” (ASN, Dip. Somm. I serie, Fs. 196 fslo 4, f. 178), “Cannavo” (Ibidem, fslo 5, f. 167v), “Cannavo” in sarciame per il bisogno delle barche (Ibidem, fslo 5, f. 214v), “Cannavo” lavorato per il sarciame delle barche della corte (Ibidem, fslo 5, f. 235v), “Cannavo” per il barcone (Ibidem, fslo 6, f. 85v), “Cannavo” per fare “paromi” per togliere le pietre della palizzata (Ibidem, fslo 6, f. 54). “Cannavo” per fare le “paricchiare” (Ibidem, fslo 6, f. 55), “Ad bestiano capuano comp.o del castello per havere lavorato r.a 5 ½ de cannavo per una corda grossa (…) d. 0.0.10” (Ibidem, Fs. 197 fslo 2, f. 231), “pisi 35 de cannavo” (Ibidem, Fs. 197 fslo 7, f. 59v), “Cannavo” (Ibidem, Fs. 197 fslo 8, f. 83).

[xix] ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 243v.

[xx] ASN, Fs. 196 fslo 6, f. 41.

[xxi] 25 settembre 1629, Policastro. Davanti al notaro compaiono la vedova Caterina Vaccaro e Hijeronimo Faraco di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. Appartenevano alla dote della sposa sette “pise di lino”. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 59v-60.

26 luglio 1633, Policastro. Davanti al notaro compaiono Joannes Nigro di Policastro ed Antonio Ligname di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Antonio e Maria Nigro sorella del detto Joannes. Quest’ultimo promette di donare alla sposa “due pise di lino” alla prossima fiera di Mulerà. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 300, ff. 44v-46.

[xxii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 77-78.

[xxiii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 140v-142.

[xxiv] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 78-78v.

[xxv] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307, ff. 90v-92.

[xxvi] Alla fine del Seicento Domenico Labrutis di Crotone risulta proprietario di “un giardino loco d.o lo ponte d’Isari con sua torre e vignali uno de’ quali si ritrova sementato di tt.a cinque d’orzo e l’altro dentro detto giardino sementato di lino e fave in comune col giardiniero”. ASCZ, Busta 496, anno 1702, ff. 56-59.

[xxvii] ASCZ, Busta 1342, anno 1761, ff. 33-36.

[xxviii] “Item pro adiustatura belantiarum magnarum ad vendendum linum et banbacem solvitur ab hesteris carlenum unum eq.aliter dividendum ut s.a.” AVC, Reintegra di Andrea Carrafa, 1518, f. s.n.

[xxix] ASN, Dipendenze della Sommaria – I serie (inv. 90t), Economi regi 306/3, f. 15r.

[xxx] ASN, Dipendenze della Sommaria – I serie (inv. 90t), Economi regi 306/3, f. 15v.

[xxxi] ASN, Dipendenze della Sommaria – I serie (inv. 90t), Economi regi 306/3, f. 18r.

[xxxii] ASCZ, Busta 1342, anno 1761, ff. 33-36.

[xxxiii] 25 aprile 1655, Policastro. Nel proprio testamento, Martio Galluzzi del casale di Albi, ma al presente “incola” in Policastro, lascia alla moglie Anna “due pise di lino” del seminato che ha fatto questo presente anno. ASCZ, Fondo Notarile, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 69v-70.

[xxxiv] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 297, ff. 36-37v.

[xxxv] Tra le spese riguardanti la massaria del nobile Lelio Lucifero di Crotone si legge: “A di 25 di maggio 1586 a Gio. Montileone ducati tre tari uno e grana cinque per pagare l’homini che scipparo lo lino”. ASCZ, Busta 108, anno 1614, ff. 193-211.

[xxxvi] AVC, Reintegrazione dei feudi e dei beni di Andrea Carrafa fatta dal giudice Francesco Jasio, (Castellorum Maris), 1520, f. 5.

[xxxvii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio L. Larussa, Busta 1912, prot. 12.382 ff. 218-262.

[xxxviii] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 109A.

[xxxix] “Prope fluvius excurrit, quem Brausium vocant, isque lentus, et lacunosus, qui aestate graves, crassosque emittit vapores, humanis corporibus infestos. Quod malum adaugent etiam ipsi cives, dum linum in eo macerare consueverunt”. ASV, Rel. Lim., Strongulen., 1747.

[xl] ASCZ, Fondo Notarile, Busta 663, anno 1730, ff. 122-123r.

[xli] AASS, Fondo Capitolare, cartella 3D fascicolo 1, f. s.n.

[xlii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 79 prot. 295, ff. 40v-54.

[xliii] ASCZ, Fondo Notarile, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 80 prot. 301, ff. 92-93.

[xliv] Nel maggio 1670 attracca al porto di Crotone la tartana del patrone Antonio Icarti. Era partita nel marzo precedente da Malta e aveva un carico composto da “Coyra in pelo, lino, riso, manna di lino et altre minutaglie come sonno berdate, calsecti fortani, selvetti et altre coselle”. ASCZ, Busta, 253, anno 1670, f. 47.

[xlv] ASCZ, Busta 470, anno 1697, f. 85.

[xlvi] AVC, Reintegra di Andrea Carrafa, f. 18v.

[xlvii] Pugliese G. F., Descrizione ed Historica narrazione di Cirò, Vol. I, p. 47; Vol. II, pp. 48-58.

[xlviii] Siniscalchi R., La Valle del Neto, Opere Pubbliche, Vol. III, 1933.

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Publicato da Arsac Ufficio Marketing Territoriale

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