L’Agricoltura calabrese raccontata attraverso le fonti storiche
di Pino RENDE Arsac Centro Divulgazione Agricola n°11
L’individuazione presso l’Archivio di Stato di Catanzaro, di un documento[i] in cui sono annotate le entrate e le spese di un decennio, del convento di S. Francesco di Paola di Roccabernarda, ci consente di venire a conoscenza di importanti informazioni circa l’attività agricola praticata a quel tempo in questo territorio, posto in posizione baricentrica tra la Sila ed il Marchesato di Crotone.
Dalla lettura di queste carte conservate a Catanzaro, apprendiamo che, durante la visita generale effettuata il 7 marzo 1739 dal generale dell’ordine, il frate Francisco Sirera, accompagnato dai frati Francisco Longobardis, Ludovico Lopez Guixarro e Arnulphuo Neveva, risultò che dal 26 marzo 1730 al 7 marzo 1739, il convento in cui vivevano mediamente cinque o sei frati, aveva avuto entrate per poco più di 3100 ducati e spese per circa 3000; con una media annua quindi di circa 350 ducati. Dall’analisi dei conti dal 1734 al 1743, risulta che esso potette contare su una entrata media annua di circa 550 ducati.
La comparazione di questi dati evidenzia la crescita economica del convento durante la prima metà del Settecento. Dal 1738 si assiste ad un continuo aumento delle sue entrate che, dai circa 500 ducati dell’annata 1738/1739, passano agli oltre 700 dell’annata 1742/1743. Si può affermare che nel decennio precedente al terremoto del 1744, tutta l’attività economica dei frati risulta in crescita: dall’allevamento del bestiame alla produzione vinicola, da quella olearia a quella granaria, generi riguardo cui, tranne che in poche annate, il convento era autosufficiente.
Il grano, l’olio e il vino
La quantità di grano prodotta, proveniente alla raccolta dagli affitti dei terreni e dall’attività creditizia, rappresenta l’indice più importante per stabilire lo stato del convento. Pur non disponendo dei dati annui relativi all’intero grano esitato, dall’esame annuale dei conti possiamo conoscere la quantità di grano (annona) rilevata nel mese di settembre nel magazzino del convento che, di solito, rappresentava poco più della metà del grano esitato in quell’anno. Col passare degli anni, questo quantitativo di continuo aumenta, passando dai 159 tomoli del settembre 1735, ai 235 del settembre 1745. Tutta l’attività creditizia però, basata sul prestito del grano ai coloni del luogo, che doveva costituire una delle voci più importanti delle rendite del convento, rimane all’oscuro. Per alcuni trimestri, abbiamo solamente la quantità di grano “impastato” e quella di olio consumato.
Annualmente il grano “impastato” era di poco più di 30 tomoli, mentre per quanto riguarda il consumo di olio, esso variava a seconda delle annate: dalle 110 litre alle 150. Sappiamo, inoltre, da un’indagine fatta alla fine di settembre 1745 che, nell’annata 1744/1745, la quantità di grano esitato era stata di 391 tomoli, così suddivisa: il 9% era stata impastata, il 31% era stata venduta, ed il restante 60% si conservava nel magazzino del convento.
Di solito, all’inizio dell’autunno, i frati facevano le provviste annuali. Essi prendevano parte del grano, portato al convento come pagamento per il fitto dei terreni a semina, o in quanto dato a credito, ma anche ricevuto con “la questua” fatta dai frati girando per le aie al tempo del raccolto, (sul finire di ottobre si recavano invece a Mesoraca e a Policastro per la questua delle castagne), e lo portavano a Crotone o a Policastro per farlo macinare. Macinato il grano, si procedeva con la “fattura della pasta”, che doveva bastare all’alimentazione dei frati per tutto l’anno. Si trattava di “maccaroni”, di “vermicelli” e di “gnoccoli”, o “ingnoccole”. Il pane, solitamente, era acquistato quasi giornalmente.
Per quanto riguarda il vino, fino all’ampliamento del vigneto, che fu realizzato nel 1738, i frati dovettero procedere in autunno ad acquisti di vino vecchio, in quanto quello “imbottato” nel convento non risultò sufficiente a coprire il loro fabbisogno per tutta l’annata. Nell’autunno 1735 i frati acquistarono 50 cannate di vino, nell’autunno seguente il doppio, tre barili nel settembre 1737, ed un barile l’anno seguente.
In certe annate mancò anche l’olio. Acquisti di olio a due carlini, o a due carlini e mezzo a litra, sono segnalati nell’autunno 1736 (2 litre), nell’inverno 1739/1740 (8 litre), e nell’autunno successivo (5 litre). L’annata 1743/1744 fu così disastrosa che, nel luglio 1744, i frati furono costretti a comprare addirittura 30 litre di olio a carlini 4 la litra.
La vigna
Una cura particolare era riservata dai frati alla vigna, che forniva il vino quasi sempre bastevole per il vitto del convento. Da settembre, quando l’uva era ormai matura, e fino alla vendemmia, essa era vigilata da un guardiano, o “vigniero” il quale, per la sua mesata, riceveva 11 carlini e mezzo. All’inizio di ottobre si preparava la vendemmia. Si compravano i cerchi e i “salici” per accomodare le botti, s sostituivano le doghe vecchie e le botti non più utilizzabili. Si acquistavano nuove botti, barili, imbuti di legno, “sportelle” e “fiscoli” per poter vendemmiare.
Solitamente, la raccolta dell’uva era fatta dalle donne, le quali ricevevano un salario di 5 grana al giorno. Gli uomini che, di solito, portavano la “racina” nel palmento, ed erano addetti a pestare l’uva, ricevevano un salario di 20 grana al giorno. Tutti avevano diritto a ricevere il vitto durante il loro lavoro, con “cascio”, “foglia”, ecc. I lavoratori impiegati variavano a seconda dell’annata, ed aumentarono sensibilmente dopo che fu realizzato l’ampliamento del vigneto. Se nella vendemmia del 1737 prestarono la loro opera 4 donne, ed in quella successiva 2 uomini, dal 1740 troviamo 6 donne ed un uomo, poi 24 donne e 12 uomini, quindi tre donne per tre giorni e 5 uomini, ecc. A causa dell’ampliamento del vigneto, le spese per la vendemmia raddoppiarono. Tra il 1735 ed il 1738 ammontarono a 6 o 8 carlini, negli anni seguenti oscillarono tra i 12 e i 14 carlini. Il periodo della vendemmia, a seconda dell’annata, cadeva tra il 13 ed il 24 ottobre, solamente nel 1740 a causa del freddo e dell’uva immatura, si potette vendemmiare solo il 9 novembre.
Di solito in febbraio si facevano i lavori di propagginazione e di potatura; quindi, si levavano i sarmenti. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, seguiva la zappatura. Era questo un lavoro costoso in quanto, normalmente, occorrevano una trentina di uomini, ognuno pagato a grana 20 la giornata oltre al vitto, composto da pane, “foglia”, olio, sarde salate e “cascio”. Sempre in tale periodo si riapprofondivano i fossi che limitavano e difendevano la vigna, e si faceva “la scalza” alle viti. Tra la fine di maggio ed i primi di giugno, altro denaro andava per “la rifusa”, per “ammaiare” e per “sgarganare” il vigneto. Tra le spese straordinarie fatte nel periodo considerato, sono da mettere in risalto quelle che furono sostenute per realizzare il nuovo vigneto, fatto nei primi giorni di aprile del 1738, quando quattro “vanghieri” provvidero a ripulire il terreno dalla vegetazione, facendo “la scippa”, e piantarono 2787 talee (“maglioli”), con una spesa di circa 20 ducati. Altri considerevoli interventi si realizzarono nel febbraio 1741, quando furono acquistati mille pali da Pietro Suraci, e nel gennaio 1744 altri duemila per assicurare le giovani viti (“la pastina”).
L’oliveto
I frati possedevano una chiusura con un oliveto. Durante l’inverno si procedeva a sboscare, ripulire, “stroppare” e “rimondare” gli olivi. In maggio/giugno si facevano gli innesti agli “ogliastri”. In autunno due apprezzatori stimavano il frutto pendente. La raccolta delle olive era fatta dalle donne. Messe nei “fiscoli” e nei “cofini” erano poi consegnate ai “trapittari”.
Durante il periodo considerato, i frati ampliarono e migliorarono il loro oliveto ed il loro oleificio. Nell’estate del 1736 iniziarono la costruzione di un nuovo “trappeto”, che completeranno l’anno seguente, spendendo oltre un centinaio di ducati. Eseguirono l’opera i mastri Giuseppe Timpano della Serra, Michelangelo Parise, Giuseppe Stumpo, Tomaso Bolotta e Domenico lo Scozzonaro. Nel maggio 1738 Polo Apa di Santa Severina, a spese del convento, innestò ben 522 oleastri. Nell’ottobre 1737, il mastro Giuseppe Stunfo accomodò la pietra del trappeto, nel settembre del 1743 i frati spesero 20 carlini per una “caldara” del trappeto, del peso di libbre 28 e mezza, e due anni dopo ne spesero altri dieci per una nuova “vite” del torchio.
L’orto
I frati possedevano un orto, o giardino, dove, all’inizio dell’autunno, piantavano numerosi cavoli e cavolini. Altre verdure venivano coltivate in primavera. A volte essi seminavano anche meloni, fave e orzo. Quest’ultimo che, assieme alla biada, risulta anche tra gli acquisti era necessario per alimentare il cavallo e l’asino (“balduino”) del convento, che i frati usavano per spostarsi per i loro affari ed acquisti, quando si recavano a Crotone, a Catanzaro e nei paesi vicini (Policastro, Cutro, Mesoraca, S. Mauro, ecc.); a volte andarono anche a Maida, Pizzo, S. Biase, Rosarno, ecc. Per zappare l’orto facevano ricorso a braccianti locali i quali, per la sua cura, erano pagati a grana 10 o 15 la giornata, mentre la giornata di lavoro di una donna per la raccolta nell’orto era pagata a grana 5.
I vegetali costituivano una delle voci principali dell’alimentazione dei frati. Le spese per “foglia” sono spesso registrate come una voce mensile a parte nel nostro documento. In media, in un anno, essa assommava a circa cinque ducati. In ottobre il correttore procedeva a fare la provvista annuale di riso, pepe, cannella, zucchero e mandole. Cicerchia, ceci, fave, “suriaca occhinigrella” e bianca, “piselli di soriaca” e “fasoli”, erano acquistati anche in luoghi lontani (Cosenza, Rosarno), o più vicini.
Tra le verdure consumate comunemente dai frati, sono ricordati: i “scacciofoli”, melanzane (“melignani”), “pepi”, le cipolle e le teste di cipollina, le verze (“capucci” o “foglie cappuccia”), i broccoli, i “cardoni”, le lattughe, i “rafanelli”, le “cocozze”, i “caoli”, i sedani (“acci”), i finocchi, i “talli” (le punte erbacee delle zucchine), i “fungi”, le “cicoie” e gli “sparaci”. Tra i frutti sono annoverati: “mendole”, nocciole (“nucilli”), “miloni”, “cerasi”, “mele”, “pomi melabbi”, noci, fichi, “arangue”, pinoli, prugni, pere, pesche (“percochi”), nocepesche (“persica”), e castagne. I frati acquistavano inoltre olive fatte al forno, castagne infornate e “lancelle di pepi all’aceto”.
Il vaccarizzo
Durante il decennio considerato aumentò l’importanza economica dell’allevamento del bestiame del convento: un centinaio di vacche, che fornivano ai frati latticini, carne e pelli. Le entrate e le spese aumentarono, raddoppiandosi. L’attività fu sempre attiva, anche se l’utile che il convento ne trasse dipese dalle annate, con ampie variazioni che, dalla quasi parità nell’annata 1736/1737, vanno ai circa 88 ducati in quella successiva. Con l’aumentare delle entrate, aumentarono anche le spese. L’aumento del bestiame, se da una parte portò maggior utile nella produzione di carne, latticini e pelli, dall’altra richiese maggiori spese per erba destinata al foraggio (“erbaggio”), custodi, utensili per fare “il latticinio”, sale, ecc.
Il “soldo” di coloro che custodivano il bestiame col passare degli anni aumentò. Se nel 1734/35 rappresentava il 20% delle spese per la “manutenzione delle vacche”, nel 1741/42 era il 30%. Gli armenti erano custoditi da un capo vaccaro, o “caporale”, da un primo vaccaro, da un secondo vaccaro e da un “mesarolo”. I primi tre erano pagati ad annata, mentre il “mesarolo” ogni mese. Durante il periodo preso in esame, l’annata del capo vaccaro non subì grandi mutamenti, oscillando dai 16 ai 18 ducati. Il capo vaccaro rimaneva in carica per più anni; in un decennio ce ne furono solo due: Leonardo Garruba e Giovanni Dardano.
Sensibili, invece, furono gli aumenti di salario delle altre due figure. L’annata del primo vaccaro passò gradualmente dai 9 ai 15 ducati, mentre quella del secondo vaccaro dagli 8 ai 14 ducati. Entrambi quasi ogni anno cambiarono. Sono ricordati: Antonio Paglianise, Serafino ed Andrea Mazzeo, Leone e Gio. Paolo Facente, Giuseppe Terzo, Domenico e Gio. Battista Gunnari, Giuseppe Zimmaturo, Gio. Battista de Cotronei, Giuseppe Licò ed Arcangelo Perrone. La mesata del “mesarolo”, che era di mezzo ducato, raddoppiò. L’incidenza del costo delle persone addette alla custodia del bestiame negli ultimi anni aumentò sensibilmente, non solo per l’aumento del “soldo”, quanto per le concessioni accessorie. Il capo vaccaro, i vaccari ed i mesaroli, ottennero anche il diritto a ricevere un tomolo di grano al mese e, durante la quaresima, un quarto di fave ed una mezza litra di olio. Di altre “ricreazioni” beneficiarono al tempo in cui si marcavano i vitelli o si portavano a vendere.
Il bestiame pascolava sui terreni della vallata del Tacina: Valle di Niffi, Corso dell’Umbro, Favata, Duecimi, Serrarossa, S.to Petro, Budetto, Altofilica, Foresta, Rivioti, ecc., e pertanto, a seconda del luogo, i frati pagarono il diritto di “fida” ai baglivi di Policastro, Roccabernarda, San Mauro e Cotronei. L’incidenza era modesta, variando a secondo delle annate, dall’uno al cinque per cento della spesa totale sostenta per il pascolo.
La spesa per l’affitto dei terreni per il pascolo (“erbaggio”) mutò a seconda dell’annata e con l’aumento degli animali. Dopo il 1735/36 raddoppiò, tuttavia nel decennio considerato incise sempre meno sul totale, riducendosi dai circa due terzi della spesa a poco più della metà negli ultimi anni. I frati, di solito, prendevano in fitto terreni da più proprietari. Sono menzionati: Gio. Filippo Godano, Cesare Berlingieri, Gio. Pietro Giuliani, l’agente di Cutro, Gio. Domenico Martino, Francesco Chaivano, Carlo Tronga, ecc.
Una cospicua entrata proveniva dalla vendita di vacche e giovenchi nelle fiere, soprattutto in quella di S. Janni presso Santa Severina ogni terza domenica di maggio, e quella di S. Vittorio che si teneva presso Cutro il primo giorno di luglio. Essi, inoltre, erano presenti anche a Roccabernarda l’otto settembre, con acquisti e vendite, nella fiera di Mulerà.
In queste occasioni si dovevano pagare ed assistere i vaccari che vi portavano il bestiame, ed un uomo che era addetto alla guardia. Una spesa che triplicò, riguardo il pagamento dei guardiani e quello dell’erba, o “erbaggio”. Il convento e tutti coloro che avevano mandrie che pascolavano in un certo territorio, ognuno per la sua porzione, dovevano pagare una somma di denaro al guardiano di quel territorio. A tale spesa si aggiungevano quelle per costruire le siepi e le cortine per recintare i luoghi di sosta degli animali ed il pagliaio dove riposavano i vaccari.
Per la produzione del “latticinio” gli acquisti riguardarono “forme” e “fiscelli” per i “raschi” e le “ricotte”, un “caccamo” ed un “caldarello”, “quagli” e sale. Quest’ultimo, soprattutto, era utilizzato per salare le pelli delle vacche, spesso “morte dal lupo” che, appena scuoiate, erano trattate con il sale, che i frati compravano alla salina di Neto. Altro sale era acquistato “per commodo de’ frati”, e per salare le sarde, le “sarache” e altro pesce.
Il pesce
Assieme alle verdure i pesci costituivano l’alimentazione ordinaria dei frati, ai quali in genere, era proibito l’uso della carne. Solo ai frati ammalati era concesso alimentarsi con uova, pollastri, galline, piccioni e grasso di maiale (“insogna”), e curarsi con “olio di mandole”, “rabarbaro” e “gomma ammoniaca”. Giornalmente essi acquistavano anguille, “verracchi” e trote, che abbondavano nel fiume Tacina e nei torrenti vicini. Altri pesci d’acqua dolce di cui i frati si cibavano, anche se in minor quantità, erano le “minuse”. Il resto era costituito dalla grande varietà del pesce di mare, che i frati acquistavano anche in luoghi lontani. Solitamente all’inizio di ottobre, i frati si premuravano di comprare a Pizzo due barili di tonnina. Acquistavano anche “tonno salato”, “tarantello”, “ova tarachi” e “trippa di tonno” fatto al sole. A volte portarono, o si fecero portare, da Maida, o da Pizzo, barili di sgombro (“sgambirro”), da Crotone sarde salate, da Le Castella baccalà, da Cutro una cernia, da Fasana pesci di diversa qualità, tra i quali molti “sardi per salare”, ecc.
Tra i pesci, i molluschi ed i rettili marini, quelli che ricorrono più spesso sono: il “pesce squadro”, le “arenghe”, i merluzzi, le sarde, il palombo, le “trigliozze”, i “luvri”, le cozze, le “sarache”, i cefali, la “testudine di mare”, le “seppi”, i calamari, il “pesce mastino”, lo “spinolo”, le alici, le triglie, i “vavosi”, le cernie, il tonno (nell’aprile 1744 acquistarono un “tonnacchio” di dodici rotoli spendendo sette carlini), ecc. Inoltre, i frati si cibavano, anche se in modo saltuario, di “dormituri”, il cui costo era di un carlino a rotolo, di “tartuche” e di “testudini”.
La neve
Anticamente, la neve rappresentava un bene necessario alla salute della popolazione, come sottolinea il Pugliese: “La neve non è solo un refrigerio ne’ mesi estivi, cioè da giugno a tutto settembre, ma è una medicina salutare per le malattie biliose, e gastriche che dominano in tale stagione”.[ii]
Di solito i frati acquistavano la neve da giugno a fine settembre. In certe annate, tuttavia, essi cominciarono ad acquistarne dalla metà di maggio fino alla fine di ottobre. La spesa fu di poco più, o poco meno, di quattro ducati, fecero accezione le annate particolarmente aride e secche del 1735 e 1743, quando i frati spesero circa 6 ducati. Dal 1744 in poi la spesa della neve, relativa all’acquisto di un “ballo”, o “ballone di neve di somarro”, aumentò sensibilmente, in quanto furono più numerosi gli acquisti in maggio che si prolungarono anche a novembre.
La cera
La spesa per la cera e l’incenso solitamente si aggirava intorno ai dieci ducati annui (una libra di cera costava 36 grana). La cera d’api serviva per le candele, particolarmente consumate durante le funzioni religiose dei tredici venerdì, della festa di San Francesco di Paola e della “settimana santa e tenebre”, quando un mastro allestiva il “sepolcro”.
Note
[i] ASCZ, Libri Antichi e Platee, Cartella 80/12.
[ii] Pugliese G. F., Descrizione ed istorica narrazione di Cirò, Napoli 1849, vol. I, p. 326.