L’olivo e l’olio nel Marchesato di Crotone

 

Il mito, riferendosi ad un orizzonte originario, collega l’apparire dell’olivo domestico al sorgere dell’organizzazione urbana. Esso fu il dono che Atena fece alla città di Atene, affinchè fosse riconosciuta la sua sovranità sull’Attica che la dea disputava al dio del mare Poseidone. In occasione di tale contesa, le due divinità offrirono agli ateniesi il loro dono migliore: Poseidone piantò il suo tridente nell’acropoli, facendo sgorgare una sorgente che però si rivelò salmastra, Atena invece, vi piantò il primo albero di olivo adatto ad essere coltivato. Gli ateniesi accettarono il dono di Atena. 

Oliveti nei pressi di Roccabernarda (KR)

Una pianta autoctona

olivastro
Esemplare di olivastro nelle campagne tra Cutro ed Isola Capo Rizzuto (KR

L’olivo selvatico o oleastro (Olea europaea L. var. oleaster) vegeta spontaneamente sia in Grecia che in Italia. Lo si ritrova nel Crotonese, dalla fascia litoranea dove un tempo coesisteva con “elci, lentischi sarmentosi, rubinia ispida, roveti, pruni selvatici, perastri”, “mirti e querce”[i], fino a circa i cinquecento metri in collina.

Per tale motivo, al pari di altre essenze spontanee, risulta menzionato nei documenti medievali in occasione della ricognizione dei confini che in un panorama ancora prevalentemente selvaggio, facevano riferimento ai principali elementi naturali caratteristici dei luoghi. Come evidenzia un atto del novembre 1118, nel quale la sua presenza è richiamata nella menzione dei confini di un possedimento in territorio di Santa Severina presso il fiume Tacina: “… et ascendit ad altum montem in quo est oliaster, et descendit ab oliastro et transit vallonem siccum …”[ii].

Il toponimo “Αγριλλοϋ” che lo identifica, si rileva ai confini tra i territori di Policastro e Mesoraca ai primi del Duecento (a.m. 6710)[iii], dove continuerà a permanere anche in seguito[iv]. Sempre in territorio di Policastro, la presenza dell’oleastro è evidenziata dalla toponomastica seicentesca, come nel caso del  luogo detto “Januam Nove (sic) seu timpam oleastri”, “ubi dicitur fore la porta nova de detta Citta”[v], dove esisteva la “ripam oleastri”[vi], ovvero la “rupam oleastri”[vii] o “timpa dell’ogliastro”[viii]. Sempre nel “districto” di Policastro, in località “Marrari”, si rinviene invece il toponimo “logliastretto”[ix].

Per quanto riguarda Santa Severina, agli inizi del Cinquecento, rileviamo il toponimo la “serra dellogliastro”[x], ovvero la “serram magnam dictam la serra de l’ogliastro”[xi] mentre, durante la prima metà del Seicento, si evidenzia il toponimo “logliastretto”[xii] o “l’Agliastretto”[xiii]. Il toponimo “Gliastretto” si rileva anche a Melissa nel catasto del 1742[xiv], mentre troviamo “La Colla dell’Ogliastro” nel catasto di Rocca di Neto dello stesso anno[xv] e “la Destra dell’Agliastro” in quello di Crotone del 1743[xvi].

L’Olivella

Attraverso i documenti disponibili non è stato possibile identificare con certezza menzioni o riferimenti ai nomi delle varietà di olivo coltivate anticamente nel Crotonese. Ciò lascia intendere che considerata la grande variabilità della specie, le diverse varietà antiche, certamente esistenti, non avessero una diversa importanza economica.

In relazione a tale variabilità, così riferisce il Fiore alla fine del Seicento: “Sono tra di noi l’olive di più spezie, altre piccolissime come grosse mortelle, ma d’un immensa carricatura, tanto che, più d’una volta si son veduti, più frutti, che frondi, e con oglio più abbondante. Altre più grosse, e grossissime, principalmente in Santa Severina, sicchè Nola Molise le fa correr di pari con quelle di Spagna, e generalmente di più spezie, e figura, altre tonde, altre lunghe, ove tutte pastose, quasi senza nocciuolo; e tutte però gratissime (verdi siano, o variamente acconcie) al palato.”[i].

Solo alla metà dell’Ottocento, in territorio di Cirò, è documentata la coltivazione della “Carolea” e della “Oliva dolce” (nella quale dovrebbe forse riconoscersi la Dolce di Rossano) che attualmente, sono le varietà maggiormente coltivate in quest’area[ii]. 

Alcuni riferimenti generici esistono per il territorio di Policastro dove, agli inizi del Seicento, si menziona l’ “olivella” in riferimento ad una singola pianta d’olivo[iii] e dove ricorre il toponimo “la  destra dell’Olivella” alla fine del Settecento[iv].

La chiesa di “S.tae Mariae de L’olivella” di Policastro compare già alla metà del Cinquecento, quando fu visitata dal vicario arcivescovile di Santa Severina[v]. Con lo stesso titolo (“dell’olivella” o “l’olivella”) risulta menzionata negli atti dei notari di Policastro durante la prima metà del Seicento[vi], periodo durante il quale figura anche in maniera altrettanto ricorrente, come Santa Maria “olivarum”[vii]. Il 13 ottobre 1660, in occasione della sua visita a Policastro, l’arcivescovo di Santa Severina visitò la “Ecc.m S. Mariae nuncupatam dell’olive”[viii].

Il toponimo si rinviene anche a Crucoli dove, alla fine del Settecento, si rilevano possessioni con olivi “Nell’Olivello”[ix] ed a Crotone[x], mentre permane ancora nella attuale toponomastica di Santa Severina (“L’Olivella”).

In coltura consociata ed in coltura specializzata

In consociazione con altre piante arboree, l’olivo si ritrova nel Crotonese nelle vigne e negli altri appezzamenti dati a censo enfiteutico ai cittadini da parte dei signori del luogo[xi]. La sua importanza prevalente nel panorama delle piante arboree coltivate è rimarcata dal fatto che la sua presenza è spesso esplicitata negli atti anche quando si riduce ad una singola pianta[xii]. 

Alla metà del Seicento, a Santa Severina, una pianta adulta di olivo era valutata due ducati[xiii], valore che a Cirò, corrispondeva ancora a quello di una giovane pianta alla metà dell’Ottocento. A quel tempo, illustrando i “Metodi di valutazione della Proprietà” in uso in questo territorio, il Pugliese riferiva che il valore degli oliveti era stabilito “a fronda” separando il terreno dal soprassuolo, ossia stimando separatamente da parte di esperti la qualità del primo e lo stato vegetativo degli alberi: 

Una pianta appena piantata, ma germogliata, ed assicurata sta duc. 1,00. Dopo 3 o 4 anni secondo la sua crescente vegetazione si valuta duc. 2,00. Dopo si valuta a fronda. (…) Si paga però il terreno separatamente dalla fronda, ed il prezzo del terreno è da duc. 8 ai duc. 16 secondo la qualità. Se il terreno è tutto coperto di alberi se ne deduce il terzo per l’occupazione de’ tronchi non già dell’ombra de’ rami ma se in una data estenzione pochi sono gli alberi, si calcola per ogni ducati cento di valore degli ulivi una tumolata di terreno, e di questa sola tumolata si deduce il terzo, il dippiù si paga.”[xiv].

Tale valore ed importanza sono messi in luce anche dal fatto che accanto alla consociazione, la coltivazione dell’olivo si riscontra in coltura specializzata già nel Medioevo, quando nel Crotonese è documentata l’esistenza di appezzamenti definiti oleastreti e/o oliveti realizzati innestando l’oleastro in porzioni di bosco, come evidenziano alcuni atti.

Nel settembre 1209, Bernardo  vescovo di Cerenzia, concedeva a censo al venerabile abbate Matteo ed ai frati florensi, alcune vigne e vignali o pezzi di terra contigui, in loco detto “Albe” presso cui era esistito il casale di Berdò, nella cui confinazione si richiama: “… ab aquilone oleastritum …”[xv].

Nel gennaio del 1218, il “presb(ite)r Peregrinus, protopapa Musurace”, per l’anima propria e quella dei suoi parenti, donava alla chiesa di Sancto Angelo de Frigillo, le terre ereditate dal padre “in tenimento Musurace, in loco qui dicitur Busuriche”, “cum olivastris arboribusque aliis et aquis que infra ipsam terram clauduntur”[xvi].

Il 29 maggio 1230, in cambio di una vigna, Guillelmus Grisolemus cedeva al dominus Alessandro de Policastro giustiziere imperiale di Calabria e Valle Gratis, un “oliveto nostro quod est de patrimonio nostro, quod est in tenimento Genic(ocastri), in loco qui dicitur Vallis de Sancto Angelo in fonte Filachi”, “cum omnibus arboribus domesticis et agrestibus que sunt ibi”, così confinato: “ab oriente est terra nostra, ab occidente est suberitum comitis Riccardi Fallucca; a septe(m)trione est olivetum domini Constantini piscatoris; a meridie est olivastretum Guidonis de domino Sturmo, quod quondam fuit olivetum, et sic concluditur olivetum”[xvii].

Sempre per quanto riguarda il territorio di Belcastro, il 6 luglio 1235, Guido figlio del dominus Roberto de Sturmo, per la propria anima e per quella dei suoi, offriva al monastero di S.to Angelo de Frigillo “duas modiatas terre cum olevastretis et cum omnibus que continentur infra eam in loco qui dicitur Sancti Angeli de Pacti”[xviii].

La domesticazione dell’oleastro attraverso l’innesto è esplicitata chiaramente in un atto dell’ottobre 1213 riguardante i monaci florensi e quelli di Calabromaria che, in quella occasione, acquisirono il libero pascolo in ogni tempo per una loro mandria nel “tenimento Floris” in Sila, cedendo ai florensi il “Tenimentum oleastri, quod est super ecclesiam S. Ananiae, aptum inserendis arboribus olivarum” che si trovava abbandonato, nel quale questi avrebbero potuto “edificari, inseri, seri (sic) et plantari”[xix].

Il 26.10.1569, Marcello Sirleto, nella sua solita relazione sulla diocesi di Squillace al cardinale Sirleto, soffermandosi sulla badia di S.ta Maria del Carrà ed in relazione al territorio di Isola, affermava: “ il territorio consiste in quattro diversità, ci sono boschi inutili, e boschi che col tempo si potrebbero domesticare e fare olive …”[xx].

Innesti e piantoni

La documentazione più recente ci permette di conoscere più nel dettaglio le modalità con cui si realizzava la propagazione dell’olivo. Questa poteva avvenire sia innestando gli oleastri che si ritrovavano spontaneamente nell’appezzamento messo a coltura, sia mettendo a dimora “piantoni” innestati, oppure che venivano innestati in pieno campo in primavera, come evidenzia un atto del 5 marzo 1624, dove si cita una possessione arborata in cui si trovavano “tanti piantoni, inserti et allevi di arbusscelli, come di gliastri, peraine, agromola, noci et albori insertati et atti d’insertare questo presente anno”[xxi]. Durante l’inverno, infatti, si procedeva a sboscare, ripulire, “stroppare” e “rimondare” gli ulivi, mentre in maggio/giugno si facevano gli innesti agli “ogliastri”. Nel maggio 1738 Polo Apa di Santa Severina a spese del convento di S. Francesco di Paola di Roccabernarda, innestò ben 522 oleastri [xxii].

I “piantoni” potevano essere ottenuti prelevando i polloni dal piede dell’oleastro e facendoli radicare in appezzamenti confinati, come ci riferisce alla fine del Settecento una fede del “Regimento” della città di Belcastro nella quale, sono elencati i beni stabili posseduti dal sig.r D. Domenico Galati de Diano in territorio di Belcastro, tra i quali è menzionato un orto vicino la chiesa diruta di “S. Ant.o” con celsi mori ed un “vivajo di ulive”[xxiii].

In questa situazione, le piante selvatiche coesistevano con quelle coltivate, che potevano ritornare rapidamente al loro stato selvatico quando, ad esempio, subivano il gelo[xxiv], oppure quando gli appezzamenti erano scarsamente coltivati o abbandonati come, ad esempio, evidenziano alcuni documenti riguardanti il territorio di Policastro.

10.01.1605. Vespesiano Blasco di Policastro vendeva a Vincentio Callea di Policastro, un “vinealem” dove si trovavano certi “pedes oleastra”, posto nel territorio di Policastro a ridosso delle mura, nel loco detto “sotto santa Caterina alias lo piro”[xxv].

24.06.1621. Joannes Laurentio Caruso di Policastro vendeva ad Ottavio Accetta di Policastro, procuratore del presbitero Joannes Angelo Furlo della città di Catanzaro, il pezzo di terra di tomolate cinque circa arborato “di olive” ovvero “arboratum olivarum, et oleastrum”, posto nel territorio di Policastro loco “le destre delli Jeni”, confine il “vallonem delli ijeni” ed altri fini[xxvi].

10.11.1629. Vittorio Scandale di Policastro vendeva al presbitero D. Joanne Jacobo de Aquila di Policastro, tre vignali in territorio di Policastro, di cui due posti in loco “lo mortilletto”, “arboribus quercum arboratum, et olivarum”, e l’altro in loco detto “la paparda”, “arboratum aliorum pedum oleastrorum”[xxvii].

La tecnica di propagare l’olivo attraverso la messa a dimora di “piantoni d’agliastri” o “d’ogliastri” è documentata ancora a Policastro nel corso del Settecento attraverso gli atti del catasto onciario, quando si citano le piantate (“piante”) di nuovi oliveti realizzate in aree recentemente disboscate, come “nelli Cugni”, ma anche a “S.n Demetrio” e nel luogo detto “le Pianette”[xxviii].

Alla metà dell’Ottocento, il Pugliese riferiva che a Cirò: “Le piantagioni novelle e gl’innesti di olivastri si valutano a piede. (…) Gli olivastri innestati e presi, ossia assicurati nel domestico, si valutano da carlini tre a cinque se locali”[xxix].

L’appezzamento

La documentazione cinquecentesca disponibile, consente di evidenziare che i luoghi prescelti dagli abitanti per la realizzazione degli oliveti, furono quelli nelle immediate vicinanze delle mura di terre e città e di altri luoghi abitati presenti nel territorio, quali le abbazie, i monasteri, i mulini, etc.

Come ad esempio, nel caso dell’abbazia di Altilia che nella seconda metà del Cinquecento, possedeva “un’olivito” posto vicino all’abbazia nel luogo detto “bosco”, come si rileva nella “Platea delle Robbe stabili tiene et possede l’Abbatia de santa Maria de Altilia”[xxx].

Così a Santa Severina dove, agli inizi del Cinquecento, ritroviamo l’olivo a cominciare dai luoghi antistanti le porte della città. Nel luogo detto “Gottoneri”, davanti alla “portam vecchiam” della città, Stefano Arcomanno possedeva un orto con un albero d’olivo[xxxi] mentre, nelle vicinanze, Thomas Bucchinfuso possedeva un loco arborato con alberi d’olivo[xxxii].

Analogamente, sotto la “Timpam de grecia”, nel luogo detto “Boccaccio”, c’erano l’oliveto detenuto da Joannes Pizzichino e quello detenuto da Francesco Bodino[xxxiii] mentre, sotto la porta nova, nel luogo detto “Fiuremendole”, Francesco Jaquinta possedeva un oliveto ed alcuni vignali arborati con olivi ed altri alberi[xxxiv], parte dei quali provvedeva a seminare[xxxv].

In quest’area sotto la porta nova della città, dove si diramavano la via pubblica che si dirigeva “ad Colle (sic) de s.to Andrea” e quella che andava “ad Conam al(ia)s de li Carre vecchi”, nelle località dette “Fiore mendole”, “allo Timpone deli Judei” ed a “Cocina”, si trovavano gli olivi di Alessandro Gisolfo[xxxvi], quelli di Joannes de Valente[xxxvii], l’oliveto ed i vignali arborati di Joannes Jaquinta[xxxviii], gli olivi di Beatrice de Planis[xxxix], gli olivi di Joannes Antonio Morronus[xl], l’oliveto e le vigne di Cesare Zurlo[xli], l’oliveto ed i vignali di Joannes Novellise[xlii], l’oliveto di Antonio Galluccio[xliii], l’oliveto di Nicola Sacco e gli olivi di Nicola Novellise e Joannes Cantarino che erano appartenuti a Sarro de Leone[xliv].

Santa Severina (KR). Panorama verso la Valle del fiume Neto.

Circum circa la città

Informazioni più complete sulla distribuzione e sulla consistenza delle aree olivetate in coltura specializzata presenti nel territorio di Santa Severina durante il Cinquecento, possono essere ricavate da altri documenti dell’Archivio Arcivescovile di Santa Severina che per alcune annate, registrano i censi dovuti alla cattedrale durante la seconda metà del secolo, coprendo abbastanza uniformemente questo periodo.

Attraverso tale fonte d’informazione, rileviamo che gli oliveti erano distribuiti tutt’attorno alla timpa della città, a cominciare dalle sue pendici, in corrispondenza delle vie d’accesso che dalle porte s’inoltravano nel territorio, nei luoghi caratterizzati dalla presenza delle chiese “Le quale stanno circum circa la Città”[i].

Ad esclusione dell’oliveto dell’erede di Marcantonio de Dato che era stato di Gerolamo Abinabile[ii] e quello di Miliagro Infosino che era appartenuto a Gio : Battista Pilante[iii] che non è stato possibile mappare, la presenza degli oliveti si evidenzia subito a ridosso delle mura: “ad lanunciata” ovvero “alla nuntiata vechia”, dove si trovava l’oliveto di Filippo Terzigna che successivamente, metà fu posseduto da Gio : Antonio Terzigna e metà, prima da Paolo e poi da Antonio Vaccaro[iv] e “sucto la grecia”, dove erano gli oliveti di Stefano e poi di Gio Domenico Fiasco che erano appartenuti a mastro Giovanni Toscano ed a Jacobello de Amminò, confine “la via pu.ca che cala di portanova à merto et l’olivito di paulo archimanno”[v].

Oltre all’oliveto di Paolo Archimanno che era precedentemente appartenuto ad Ottaviano Cirigiorgio ed a Nicola Archimanno[vi], nelle vicinanze, a “merto”, vi erano l’oliveto di Marcantonio Basoino e quello di Paolo de Sara che era appartenuto ad Alfonso de Sara[vii] e l’oliveto di Gio : Petro de Fulco e di Gio : Ferrante Novellise[viii]. Sempre “ad merto” c’era l’oliveto di Cola Pavia appartenuto a messer Gio : Francesco Miniscalco[ix]. 

Sotto la “portanova” vi erano ancora, gli olivi di Gio : Bartolo Oliverio[x] e l’oliveto che era appartenuto a messer Cola Cosentino che fu poi di messer Petro Cosentino e successivamente, di D. Giovanni Cosentino[xi].

Sempre sotto la Porta Nova, “alla Cona” o “alla Cona de Cocina”, ovvero “ad le carra veche”,  si trovavano l’oliveto del diacono Antonino Milea, precedentemente appartenuto a Marino Milea, a donno Gio : Petro Franzè ed a donna Beatrice Milea[xii] e l’oliveto del magnifico Petro Antonio delo Sindico, che era appartenuto a messer Gerolimo delo Sindico e prima ancora a “catania”[xiii].

Qui, presso “s.to Nicola de Cocina”, vi erano l’oliveto di Gio : Bartolo Sacco erede di Gio : Francesco Sacco appartenuto ad Ambrosio Lauria e l’oliveto di messer Gio : Maria Novellise[xiv],  l’oliveto di donno Gregorio dele Pira appartenuto a Gio Matteo Sicuranza[xv] e l’oliveto di D. Martino della Mendula che nel 1586, ne fece donazione alla cappella del SS.mo Sacramento[xvi].

Nelle vicinanze, tra i possedimenti posti “alle Carra” o “alle Carra vecchia”, troviamo l’oliveto di Antonio Zurlo detenuto da Petro Pistoia che, nel medesimo luogo, possedeva anche la vigna e l’oliveto che erano stati di Battista Condopoli e Petro Cola Caloianni, l’oliveto di Lucantonio Modio e l’oliveto di mastro Alfonso Novellise[xvii].

Allontanandoci un poco, sempre sotto la città dalla parte di tramontana, a “Cafiri”, vi era l’oliveto di messer Joannello Susanna appartenuto a Cola Ferraro che successivamente, appartenne al magnifico Carlo Susanna[xviii] mentre, “ad manastria” si trovavano gli oliveti di Lancello Vaccaro e quello di Bernardo Infosino[xix].

Verso ponente, invece, sotto “allo Timpone di li Impisi” e “sopra lo Canale della Città”, vi era l’oliveto della magnifica Isabella Susanna, precedentemente appartenuto al magnifico Francesco Baglione[xx]. Nelle vicinanze[xxi], “alli Cati” ossia a “molinello”, vi era l’olivetello di messer Gerolimo de Sindico che precedentemente, era appartenuto a Gio : Vincenzo de Sindico alias Gambarazza e che successivamente, fu di Gio : Bernardino Santoro e poi di Indino de Amminò[xxii].

Sempre ad occidente della città, dalla parte verso cui apriva la Porta della Piazza, ovvero “sucto guctuneri” a S.to Fantino, vi era l’oliveto della m.ca Elisabetta Cirigiorgio, appartenuto al notaro Matteo Cirigiorgio suo padre che fu di Cola de Gerardo, confine l’oliveto di Minico Ficuso[xxiii] mentre, sempre “ad s.to infantino”, “sotto santo Vito”, si trovava l’oliveto di messer Marcantonio Infosino erede di messer Luca Giovanni Infosino[xxiv].

Dalla parte del castello[xxv], invece, “sopra la fontana”, vi erano l’olivetello di Antonio Vaccaro, gli olivi di Antonino Califari ed alcuni possessi di Tesidio Oliverio tra cui l’oliveto che era appartenuto a mastro Ferrante Condopoli[xxvi], mentre “alle Coste dela fontana” si trovava l’oliveto di Lorenzo Modio[xxvii].

Spingendoci più a sud, troviamo l’oliveto di Pietro Carcello poi di Giulio delle Castelle presso la chiesa di S.ta Maria della Neve[xxviii], e l’oliveto di mastro Giorgio Labbate a S.to Giorgio ovvero “alle puzelle”[xxix]. Qui si trovavano anche l’oliveto di messer Gio : Francesco Miniscalco che successivamente, fu posseduto parte da messer Lorenzo Lomoio, parte da donna Covella Miniscalco e parte da messer Federico Sacco, l’oliveto di Petro Antonio Infosino[xxx] e le vigne di Guglielmo Caputo, ossia l’oliveto di messer Silvestro de Martino che poi passò all’erede Gaspare de Martino suo figlio[xxxi].

 

Gli oleifici di Santa Severina

Questa dimensione piuttosto contenuta dell’olivicoltura di Santa Severina si riscontra anche rilevando il numero degli oleifici presenti nella città. La scarsa documentazione cinquecentesca, non ci consente di fare molta luce su questo periodo. Agli inizi del Cinquecento, fuori la città, “in loco ditto Fiore mendole”, Caesar Zurlus possedeva un oliveto con vigne contigue, “cum Torculari (sic) lapideo intus fabricato”[xxxii]. Nella seconda metà del Cinquecento, è documentata la presenza nella città del “trappito” del magnifico Marcantonio Infosino[xxxiii], mentre sappiamo che alla fine del secolo, esisteva il “trappito” di D. Gio : Ant.o Tilese[xxxiv].

Attraverso il catasto relativo agli anni 1666-67, rileviamo però che alla metà del Seicento, a Santa Severina esistevano in tutto solo tre oleifici: il “tappeto” o “trappeto” di Vittoria Infosino ed Antonio Benincasa[xxxv], quello di Lelio Teutonico[xxxvi] e quello di Marcantonio Zurlo[xxxvii]. Numeri che trovano riferimento nella notizia contenuta nell’apprezzo di Santa Severina del 1653, il quale c’informa che “l’oglio viene da fuora e vale grana otto lo quarto”[xxxviii].

Dall’apprezzo della città del 1687, apprendiamo invece, che proprio in questo periodo era stato realizzato un nuovo oleificio: “Di più fuori di detta Città, e proprio da sotto il luogo detto Portanova, poco distante vi è un edifizio di fabrica, dove si sta formato il trappeto per macinare olive, il quale si possiede da particolari, e vi è una Chiesa sotto il titolo di S. Maria della Consolazione, ad una Nave, ed intempiatura, pittata con un altare, ed una campana piccola”[xxxix].

Lo stesso numero di oleifici risultano anche circa un secolo dopo, nel catasto del 1743[xl]: quello del patrizio D. Tommaso Faraldi di anni 42, che possedeva “un trappeto da macinar olive nel luogo d.o Cocina”[xli], quello del canonico D. Maurizio Giuliani di anni 64, che possedeva “un Trappeto da macinar olive sito nel basso” del suo palazzo o casa palaziata posta in parrocchia di S.to Nicola de Greci, dove abitava con Paolo Giuliani suo fratello ed una sorella[xlii], e quello del cantore D. Martino Severini patrizio della città di anni 51, che possedeva “Un Trappeto da macinar olive sito dentro una Casa Confine quella di Dom.co Novellise” con orto contiguo[xliii].

Questa situazione appare confermata anche in occasione della compilazione del catasto del 1785[xliv], quando si rinviene che l’erede del q.m D. Giuseppe Infusini, possedeva “un Trappedo”[xlv], il nobile D. Giacinto Severini, possedeva “un Trappedo”[xlvi], il nobile D. Gio : Antonio Faraldi, possedeva “Un Trappedo”[xlvii], mentre il magnifico Pietro Di Simone vivente civilmente, possedeva solo “Una metà di Trappedo”[xlviii].

La situazione di Santa Severina trova riscontro anche a Belcastro dove, dal catasto relativo agli anni 1742-43[xlix], apprendiamo che nella città esistevano in tutto solo due oleifici: quello del nobile Jo : Dom.co Iazzolino di anni 26, che possedeva “una casa con Trappeto nel basso per uso di macinare olive, nel luogo d.o la Grecia”, confine le case di Caterina Fiorino, esigendone il pagamento in olio da Pietro Incola[l] e quello della Mensa Vescovile di Belcastro posto nel luogo detto “lo burgo”[li].

Nel 1742 esistevano a Melissa quattro oleifici: quello del parroco Giacinto Curto, quello del massaro Angelo Arcuri ed i due del feudatario[lii] mentre, nello stesso anno, non ne risultavano a Rocca di Neto[liii]. Nei catasti superstiti relativi alla seconda metà del Settecento, non si rilevano oleifici a Isola[liv]. 

Gli oleifici di Policastro

Anche a Policastro si evidenzia una situazione simile. Durante la prima metà del Seicento, è documentata l’esistenza di quattro oleifici: il “trappitum” o “Tapetum” del presbitero Gio : Andrea Alemanno posto nel convicino della chiesa diruta di S.to Angelo “lo melillo” nel luogo detto “lo castello”[lv], il “trappito di oglio” di Gio : Thoma Curto posto nel convicino della SS.ma Annunziata “nova” / S.to Nicola de Greci che era appartenuto al quondam D. Scipione Curto suo padre e che poi fu di Gio : Paolo Mannarino ed in seguito, di Scipione Spinello e di suo figlio Giuseppe[lvi], il “Trappeto da far oglio” del quondam dottore Francesco Antonio Blasco, posto ai confini tra il convicino di S.to Nicola de Greci e quello di S.to Petro, ereditato da suo fratello Vespesiano che in seguito, fu di Andriana Leuci e dei suoi eredi, di Laura Blasco e quindi, di Francesco Converiati[lvii], ed il “trappito” di Franceschello Popaianni posto nel convicino di Santo Petro, che fu poi dei suoi figli Caterina e Vespesiano e che successivamente, fu metà di Joannella Callea figlia di detta Caterina e metà degli eredi del detto Vespesiano[lviii].

In questo caso, le ragioni che spiegano lo scarso numero di oleifici presenti, si rinvengono in una relazione del 1686 redatta dall’avvocato Giuseppe Domenico Andreoni, visitatore di Policastro per parte della corte medicea che al tempo la deteneva in feudo. In questa relazione, egli faceva notare che, seppure era stata tollerata “a titolo di mera grazia” una situazione illegale, essendo i vassalli di Policastro “angarari” e “perangarari”, questi erano tenuti alle prestazioni ed alle limitazioni feudali relative al loro status, “di modo che solamente il feudatario può tenere mulini, forni, frantoi e li può vietare agli altri”[lix].

In seguito, tali limitazioni dovettero divenire più restrittive. Attraverso le informazioni del catasto onciario del 1742[lx] rileviamo che a quel tempo, il numero degli oleifici di Policastro era sceso a due.

Il massaro Carmine Portiglia di anni 65, possedeva una casa in parrocchia di S.ta Maria Magna dove abitava, confine le case degli eredi del quondam Pompeo Mannarino ed altri fini. “Sotto il di lui basso” possedeva “uno trappeto per uso e commodo di Casa, che dedotta la spesa delle legna, e rame rende annui d. 1.20”[lxi].

Il magnifico Giambattista Scandale nobile vivente di anni 83, abitava nelle sue case in parrocchia di S.to Nicola dei Greci, contigue a quelle degli eredi del q.m Carlo Tronca. Qui possedeva “Uno trappeto p(er) macina di olive posto in uno basso di d.te sue Case: In quell’anno, che macina dedotte le spese della rame legna, acqua, e trappetari rende in Circa …”[lxii].

Solo dopo l’eversione della feudalità le cose sarebbero mutate. Alla metà dell’Ottocento, esistevano a Cirò 24 trappeti, “la maggior parte dentro l’abitato; e tranne sei co’ strettoi alla Genovese, gli altri son tutti secondo l’antico metodo cioè alla paesana”[lxiii] mentre, agli inizi del Novecento, Petilia Policastro ormai già si distingueva per la presenza di “molti torchi da olio”[lxiv].

Oliveti nei dintorni di Belcastro (CZ).
Gli oliveti lambiscono le case dell’abitato di Petilia Policastro (KR)
Gli oliveti attorno all’abitato di Petilia Policastro (KR).

Lo ius proibendi

Il diritto da parte del barone di proibire ai suoi vassalli l’uso di oleifici che non fossero quelli feudali, è richiamato anche a Melissa dove, al tempo di Giovanni Maria Campitelli (1561-1574), il suo diritto di esercitare lo “jus prohibendi” riguardo la macina delle olive è espressamente rivendicato nei confronti dell’università:

“… in la t(er)ra de melsa ci sono stati et al p(rese)nte ci sono li trappiti dela baronal corte, et li vassalli, et cittadini di detta t(er)ra sono andati, et soliti andare a macinare le loro olive in ditti trappiti, et pagare p(er) raggione di detta macinatura s’have exatto la macinatura secondo lo solito antiquo ut. s.a et q(ue)sto è la verità.

Item com’ in ditta t(er)ra de melsa non ci sono altri trappiti che q(ue)lli dela baronal corte et q(ua)n(do) alconi di detti cittadini havissiro tentato di farne altri novi sono stati p(ro)ibiti, et con detta p(ro)hibitione q(ue)lli s’haveno quietato, et sono andati a macinare le olive alli trappiti dela baronal corte et q(ue)st’ è la verità.

Item come da tempo antiquo, et antiquiss.o che non è memoria di homo in contrario li citatini, et vassali di detta t(er)ra de melsa sono stati p(ro)hibiti sempre di fare novi trappiti, et q(ue)lli hanno consentito à detta p(ro)hibitione, et sono stati patienti andando a macinare le loro olive in ditti trappiti de ditta baronal corte donando p(er) ciaschiduna macina d’olive q(ue)l tanto ch’è solito exigersi, et q(ue)st’ è la verità.”[cxxv].

Tale situazione di conflitto tra il feudatario ed i cittadini in merito alla macina delle olive, emerge anche a Cotronei. Nel 1698, l’università di Cotronei adducendo che “… da tempo immemorabile, la supp.te, e suoi Citt.ni è stata, e stà in possesso cosi di tenere, ed edificare d.ti trappiti, come ancora di tutti, e qualsivogliono atti falcutativi”, si rivolgeva al re perché, dovendo riparare “un’ogliara, seu trappeto” che possedeva da più secoli, ne era impedita dalla baronessa e per essa da suo marito Roggiero Cavaselice, che non solo minacciava di demolirla, ma facendosi forte dello “jus proibendi”, impediva ai cittadini di andare a macinare le olive anche “nelle proprie ogliara, come in quelle delle Cappelle dell’SS.mo Rosario, e S.to Antonio”[cxxvi].

In alcuni casi i feudatari consentivano deroghe, permettendo ad alcuni “particolari” di possedere oleifici. Questi, dichiarando in catasto il “solo proprio uso” di tali beni, riuscivano così ad essere esenti dall’imposizione fiscale.

Alla metà del Settecento a Crucoli, il D.re D. Giovanni La Manna di anni 35, possedeva in “Uliveto, o sia Munizza”, le terre seminatorie di tomolate 31 alberate in parte con ulivi ed in parte con altri alberi fruttiferi, con “un rinchiuso Trappedo, sgarazzi di fabbrica ed ortalizi d’inverno, oltre agli alveari d’Api, che di continuo vi mantiene p(er) tenersi chiuso perpetuam.te porz.ne di d.e Terre aperte”, confine con “Ciccopeluso della Cam.a Baronale”, con la via pubblica che “conduce in S. Venere” ed altri fini.

In relazione all’imposizione fiscale su questi beni, si annotava che: il “Trappedo non si tassa, p(er)chè serve p(er) solo proprio uso, e p(er) macinare le proprie ulive, p(er) l’abusivo jus proibitivo, che dall’Ill.re Possessore si esercita; però togliendoci il med.o, rest’ all’Uni(vers)ità aperta la via di tassarne la rendita.”[cxxvii].

Dallo stesso catasto apprendiamo che il feudatario, l’Ill.e D. Nicola Amalfitano marchese di Crucoli, “oltre i Trappedi della Torretta, e di Cassia”, possedeva “un Trappedo nell’uliveto di Giardino con sua casa di fabbrica, che serve per macinarvi gli ulivi, che ivi nascono, e però non si tassano”.

Il marchese possedeva anche un “Altro Trappedo posto fuori l’abitato di q.a Terra, e proprio fuori la Porta di S. Elia, confine il magazzino dell’Annunciata di d.a Cam.a, la casa d’Ant.o d’Acri, e via pub.a. Detto trappedo s’affita annui ducati quaranta, de’ quali dedottone il quarto, tanto p(er) la fabbrica, che per lo stiglio, che annualm.te han bisogno di riparo, rest.o ducati trenta, a motivo che abusivam.te, p(er) forza, e p(er) violenza, si strangolano i poveri Cittadini, che non han Trappedi propri ci portaro i loro ulivi, e però la macina è straordinaria, ed arriva fin’a macine quattrocento annui effettivi”[cxxviii].

Il tempo della raccolta

In relazione alle più o meno favorevoli condizioni climatiche, il periodo compreso tra la fine del mese di settembre e gli inizi di quello successivo, vede nel Crotonese l’inizio della caduta delle olive, segnando l’avvio della raccolta. Questa si realizzava anticamente, come ancora succede, durante i mesi di ottobre e novembre mentre, a volte, si protraeva anche in dicembre[cxxix].

A stabilire questi tempi, intervenivano fattori naturali ben conosciuti, almeno per quanto riguardava le loro conseguenze sulla quantità e sulla qualità del prodotto ottenibile.

Come ad esempio, i temporali dell’autunno, periodo in cui si verificano nel Crotonese le precipitazioni più consitenti di tutto l’arco dell’anno che ostacolando la raccolta, specie nelle zone acclivi, decurtavano sensibilmente la produzione. In questo periodo intervenivano anche gli attacchi parassitari della mosca olearia (Bactrocera oleae): “Sono soggetti i frutti ad un verme prodotto da’ venti australi, che spirano in autunno, e dalla mancanza delle acque del territorio, di modo che, quando la malattia di questi frutti non è avanzata e sorgono i venti boreali, si salvano. Quanto più abbondano i venti settentrionali, più abbondante e migliore è l’olio. Questo verme si nutre del frutto e finalmente quando tocca il piede che l’attacca alla pianta, cade il frutto. Quel poco di olio che si fa in questo caso è puzzolente e di cattiva condizione.”[cxxx].

In annate particolarmente favorevoli però, la raccolta poteva protrarsi anche nella primavera. Lo si ricordava ad esempio, a Cirò: “E nel 1664 fu tale la carica degli ulivi, che se ne raccolse il frutto per sino a maggio 1665; cosa insolita in questo territorio, ed il rendito era di 40 rotoli al 33 ½ per ogni macina di quattro tomoli.”[cxxxi].

Nel Seicento, era a tutti notorio che “… l’olive un’anno sono fertili, et carricano, et l’altro nò,…”[cxxxii]. Nell’anno della “carica”, per preparare la raccolta che avveniva raccattando il frutto da terra, nei mesi di agosto e settembre si “rampava” il terreno sotto le piante, “vale a dire colla zappa si pulizzano bene tutte le aje che formano i limiti delle piante rialzandone gli orli”.

In alcuni casi, i particolari trovavano conveniente concedere il frutto dei loro olivi a terzi (“terzieri”) che s’assumevano l’onere di raccogliere e macinare le olive in cambio di 1/3 dell’olio. Nelle imminenze della raccolta, le parti affidavano a periti la valutazione della quantità di olive presente sulla pianta che era stabilita in “macine”:

I particolari concedono annualmente a terzo, o a gabella il frutto, che si fa valutare da’ periti. Ne’ tempi andati si stava alla buonafede. Il proprietario si accordava con un onesto terziere il quale s’incaricava di rampare, raccogliere, trasportare, e macinare ritenendosi il 3.o del prodotto; ma la scambievole malafede fece introdurre l’apprezzo per cui o il terziere riesce a sedurre il perito, come spesso accade, e i due terzi del padrone son suoi, o viceversa, e non solo fatiga per proprietario, ma si vende la casa e la vigna. Intanto non si trova più a fare il terzo a buona fede, perché ogni terziere specula sull’apprezzo.”[cxxxiii].

(…) “La valutazione si esegue a macina in fronda. Quattro tomoli presunti di fronda formano una macina. Il valore di ogni macina è stato, è, e dovra essere sempre di ducati sei per la grande varietà che passa tra la fronda ed il frutto, poiché per la lunghissima esperienza che si ha, e prescindendo dalle incertezze delle cariche, appena il frutto delle annate ubertose corrisponde al terzo delle macine in fronda: e fatto calcolo della coltura, delle spese di raccolta, e macinatura la rendita si riduce a ben poca cosa.”[cxxxiv].

Se questi lavori preparatori erano riservati agli uomini, il duro lavoro di raccolta era tradizionalmente affidato alle donne che pur rimanendo escluse dal lavoro nei campi, “Solo nella raccolta delle ulive e delle uve aiutano gli uomini”[cxxxv].

Raccoglitrici d’olive

In ragione delle forti richieste di manodopera per il concentramento della raccolta in tempi ristretti, alla metà dell’Ottocento, le donne neccessarie alla raccolta erano “caparrate” dai padroni delle olive di Cirò già durante l’estate, quando quelle “paesane” , “si caparrano dall’està a grana sei al giorno, vale a dire duc. 1,80 al mese”, mentre le “forastiere”, che venivano da Longobucco ed ancorpiù da Bocchigliero, ed in alcuni anni da Umbriatico, Pallagorio, e Melissa, “si caparrano da giugno per carlini venti al mese, un ottavo di fave, un quarto di mil. d’olio, e mezzo rotolo di sale al mese”. Per tutte però, si calcolava il loro mese di lavoro “dal giorno di venuta per viaggio”, escludendo però quello di ritorno.

Esistevano sostanziali differenze tra la manodopera femminile locale e quella forestiera. Le donne cirotane “caparrate”, erano pagate di meno (grana sei al giorno) rispetto alla loro colleghe, perché fornivano meno garanzie al padrone. Esse infatti, vivendo sul posto, potevano più agevolmente non rispettare il loro “impiego”, come in occasione delle giornate piovose o festive, mentre erano sempre pronte ad una “scappatina” durante i picchi di raccolta, quando i padroni cercavano di avere al lavoro quante più donne possibile ed erano disposti a pagare in contanti da otto a dodici grana al giorno. 

Le raccoglitrici forestiere “caparrate”, calcolato anche “viaggio, minestra e sale” percepivano una retribuzione maggiore (grana otto al giorno), ma questo dippiù era compensato dal loro lavoro certo e costante, potendo il padrone obbligarle a raccogliere “anche in giornate cattive per quanto si può”. A loro, “per loppiù”, era data l’abitazione in campagna “ne’ caselloni vicini a’ casini”, mentre le donne cirotane ritornavano “costantemente” a casa loro. Per tale ragione, alle forestiere si calcolava mediamente “un’ora dippiù di raccolta”.

Ad ogni gruppo di donne impegnate nella raccolta era assegnato un sovrastante maschio detto “mesarulo”, che aveva il compito di guidarle e controllarle, ma anche quello di svuotare i loro “panieri” e di riempire i “sacchi”. A questo mesarulo si pagavano ducati 4.50 al mese “alla scarsa, vale a dier senz’altro”, oppure ducati 4 più “un quarto di tomolo di fave per minestra, un rotolo di sale, e mezzo militro di olio, ed abitazione vicino le donne”.

Il trasporto delle olive al “trappeto” era effettuato da un “vaticale con un mulo o asino”, la cui spesa secondo la distanza, era da 2 a 5 grana per sacco, o dalle stesse donne che ricevevano il relativo pagamento, in relazione alla loro diversa provenienza: “Alla donna di Longobucco si bonifica per ciascuna carlini quattro per trasporto del suo sacco, ed a quelle di Bocchigliere un viaggio di mulo in duc. 1,20 per ogni diece”.

Raccoglitrici di olive Calabresi
Raccoglitrici di olive calabresi al lavoro (foto di Rosario Franco)

Nel “trappito”

La struttura dell’oleificio e l’antico sistema di lavorazione delle olive ci sono descritti nei particolari a Cirò alla metà dell’Ottocento[cxxxvi].

Giunte nei sacchi all’oleificio, le olive si riunivano ed ammassavano in celle oscure dette “olivari”, fatte “di fabbrica con portella dalla metà in su rivolta alla parte interna” dove, in relazione al maggiore o minore afflusso del prodotto, sarebbero rimaste diversi giorni. Qui le olive si pestavano e comprimevano “mattina e sera per ben serrarle ed evitare per quanto sia possibile che fermentassero, ed imputridissero”. Queste divenivano così “una massa dura che quando si macinano debbono tagliarsi a piccoli banchi colla zappa”.

Il ciclo di lavoro (discontinuo) vedeva la presenza di un “frantoio” che era sempre “l’antico”[cxxxvii], consistente in “una mola verticale del diametro di 4 ½ palmi a 5, e di fronte da 20 a 24 once che gira con doppia rotazione sopra la mola orizzontale, mossa sempre da un mulo.” Al quel tempo, “Una pietra soprana e sottana di buona grana portata e messa in macina” costava dai 120 ai 130 ducati.

Ottenuta la pasta oleosa, questa subiva la spremitura mediante “torchi” o “strettoi”.

La forza lavoro dell’oleifico era composta da quattro uomini, un “giovinotto” ed un “mulo”. Questi uomini, detti “trappitari”, obbedivano ad antiche consuetudini che stabilivano precise gerarchie e regolavano i loro rapporti, quelli con il padrone dell’oleificio ed il padrone delle olive, fissando l’organizzazione del lavoro.

A capo vi era il “Nagliere”[cxxxviii] a cui erano sottoposti un “Compagno”, un “Cimiere” ed un altro uomo che portava “la stanga detta pannuola” del torchio. Il “giovinotto” detto “attizzatore”, aveva invece il compito di accostare e scostare “la pasta dalla mola, e gira quasi col mulo”. Il compagno assisteva “in tutte le faccende” il nagliere, forniva il mulo ed erano a suo carico le spese per “fiscoli, sevo, funicelle, o imboccolatoj, pale e tutto altro”. A suo carico erano anche le spese relative ad una eventuale “rottura”, in occasione della quale il padrone del frantoio sopportava l’onere di fornire il legname necessario ed il suo trasporto, mentre al compagno spettava pagare il mastro per la sua messa in opera.

Il loro ambiente di lavoro non era dei più salubri: la massa delle olive in fermentazione ed i cumuli di sansa ancora impregnata d’olio sviluppavano calore e miasmi, “motivo per cui il trappetaro vi soffre nella salute, e durante la macina si distingue al suo viso pallido, e quasi sparuto”.

Il sistema “antico ed ordinario della macina” consisteva nel macinare otto “macine” di olive al giorno per due giorni di lavoro (1 macina = 4 tomoli). Le olive prese dai “serbatoi” e disposte sulla “conca” ad “una palata” la volta, dall’uomo addetto alla “pannuola” e dall’attizzatore, erano macinate “a quattro Zerni”, compiendo cioè per quattro volte “il giro della pasta”, che era accostata e scostata manualmente “alla pietra” dall’attizzatore. La sansa (“nocciuolo”) ottenuta dalla lavorazione dei primi due giorni, era rimacinata durante una terza giornata di lavoro (“rifatto”).

A questo punto, ottenuta la pasta oleosa, al nagliere spettava di fare “il concio”, ossia di mettere in ordine i fiscoli (“bruscole”) fatti con una specie di giunchi (“vrelli, brelli”), sotto il torchio (“strettoio”) per la spremitura della pasta. Al compagno ed al cimiere spettava invece di portare i fiscoli con la pasta sul “delfino”, dove si trovava una base perfettamente circolare dotata di un “canaletto” che permetteva all’olio di scorrere nel “tino”. Il sito dei fiscoli era detto “angiolo”. Effettuata la spremitura, il nagliere raccoglieva l’olio dal tino, quando questo affiorava sopra le acque di vegetazione.

Il marchese Domenico Grimaldi (1735-1805) raccomandava di effettuare subito la separazione dell’olio “dalle morchie e dalla feccia”, usando “una coppa piana di rame, che rade tutte le particelle Oleose, che vengono a galla”[cxxxix].

Per aumentare la resa in olio si adoperava l’acqua calda: “Nelle annate secche ed infette, si usava mettere l’acqua calda alla conca, ed anche ai fiscoli, ed alla tina per depurar l’olio, ma quest’uso va sbandendosi, ed al bisogno si usa l’acqua naturale, che è preferibile sotto tutti i rapporti”[cxl].

Gli antichi “torchi” o “strettoi” detti “trappeti” erano fatti di “legno di quercia e d’elce”, anche se questo legname era già divenuto di difficile reperibilità:

E per le macchine de’ strettoi detti trappeti per l’olio, la quercia appena somministra le madri viti, e viti dette scrufine o scrufole comunemente, ed i delfini; ma con somma difficoltà se ne trovano: l’elce si adopera egualmente che il carpino per le viti; ma è tale la penuria del legname che se la coltivazione degli ulivi cresce, e dovessero costruirsi nuovi strettoi sarebbe penoso di ricercarne ed averne; talchè già si comincia a pensare di procurarsi macchine di ferro.”[cxli].

Rispetto a questi antichi torchi, andavano ormai affermandosi quelli “alla Genovese” che “sopra il comune”, avevano il vantaggio “di avere una più forte pressione, ed uno scolo maggiore, perché fatigano a vicenda due conci; di risparmiare almeno un uomo, e di fare il servizio con più pacatezza”[cxlii].

I benefici relativi all’introduzione di queste nuove macchine, sono ampiamente descritti dal marchese Grimaldi, che in relazione all’antico e grande torchio calabrese, dotato di “due viti per spremere le Ulive”[cxliii] e di una “stanga”[cxliv] che serviva a stringerle, così s’esprimeva:

Il torchio è assai grande, e complicato, e per conseguenza spesoso, non essendo facile a trovare alcuni pezzi di legname necessarj per costruirlo. (…) Le due viti laterali rendono lunga, ed intricata la pressura, perché bisogna stringere prima una, e poi l’altra vite, per far che la panca comprima le sporte piene d’ulive, che sono nel mezzo del torchio, (…) per maneggiarlo sono necessarj cinque o sei uomini; i quali fanno una fatica terribile, spingendo col petto la stanga, che deve stringere le viti (…)”[cxlv].

In relazione al loro uso, gli “ordigni” o “stigli” dell’oleificio, dovevano ricevere una manutenzione costante tutti gli anni, al fine di rinnovare le parti usurate.

Dalla visita del convento di S. Francesco di Paola di Roccabernarda, effettuata il 7 marzo 1739 dal frate Franciscus Sirera generale dell’ordine, risultò che nell’estate del 1736 i frati avevano iniziato la costruzione di un nuovo trappeto, che completeranno l’anno seguente, spendendo oltre un centinaio di ducati. Eseguirono l’opera i mastri Giuseppe Timpano della Serra, Michelangelo Parise, Giuseppe Stumpo, Tomaso Bolotta e Domenico lo Scozzonaro. Nell’ottobre dell’anno seguente il mastro Giuseppe Stunfo accomodò la pietra del trappeto, nel settembre del 1743 i frati spesero 20 carlini per una caldaia per il trappeto del peso di libbre 28 e mezza e due anni dopo ne spesero altri dieci per una vite[cxlvi].

Antichi rapporti

Per il lavoro dell’oleificio, il proprietario delle olive che non aveva “trappeto”, pagava un carlino a macina ed erano a sue spese “due uomini, e cibaria completa a tutti”, se si contentava dell’olio prodotto durante i primi due giorni e lasciava all’oleificio il “rifatto” relativo alla lavorazione del terzo giorno.

In questo caso i lavoratori partecipavano con il padrone al profitto dell’oleificio, ed il “prodotto del rifatto” era diviso in terzi tra il padrone del trappeto, il nagliere ed il suo “compagno e mulo”. Del terzo spettante al nagliere erano fatte due parti: una rimaneva a lui, l’altra andava al compagno. Al “compagno, o sia padrone del mulo”, competeva provvedere alla “cibaria” spettante a tutti i lavoratori “nel giorno del rifatto”. Questa divisione avveniva però solo dopo aver dedotto “dalla tina”, l’olio “per la santalucia” pari ad una “bombola di un mezzo militro”, che serviva “pei lumi”, ma anche “per mangiare”, la quale “si rimpiazza sempre dalla tina a carico di chiunque macina”, un “mezzo militro” che si dava al cimiere, uno spettante “all’uomo porta pannula”, ed uno che andava all’attizzatore. Le stesse proporzioni erano seguite nella distribuzione del denaro.

Alla metà dell’Ottocento però, l’uso di pagare le macine di olive andava cessando, ed era ormai adottato quello che vedeva il padrone delle olive pagare solo “i tre uomini”, fare “la cibaria” a tutti e lasciare il rifatto all’oleificio. Quelli che optavano diversamente, pagavano sedici carlini al giorno che si dividevano come per l’olio, “i tre uomini” e la cibaria “tanto alle ulive che al rifatto”.

Antiche misure

La misurazione dell’olio rispettava consuetudini locali antiche ed i termini utilizzati per indicare le diverse misure, anche quando risultavano gli stessi, spesso cambiavano da luogo a luogo. In diversi casi derivati dal greco o dall’arabo, questi termini sono rimasti ben presenti nella nostra lingua e nelle sue differenti forme dialettali fino ai giorni nostri.

L’uso della “cannata”, per la misura dell’olio o di altri liquidi è documentata nell’Italia meridionale in un atto del 1139[cxlvii], mentre il “cafisu” dall’arabo “qafiz”[cxlviii], si ritrova nell’Anonimo Cassinese[cxlix].

Per quanto riguarda più strettamente la documentazione riguardante il Crotonese, ritroviamo la “lancella” o “langella”, misura che è documentata in un atto del 1223 scritto “Apud Cotronum”, quando l’archimandrita ed il convento del Patire di Rossano si obbligarono nei confronti dell’abbate e del monastero Florense a pagare “pro censu” nella festa di Natale, “lagenas boni et puri olei quinque, capientes singulas milagines binas ad justam mensuram Rossani”[cl].

Misure in uso nel Crotonese nei periodi successivi, furono la “libra” o “litra”[cli], come è documentato, per esempio a Le Castella, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del secolo successivo[clii] ed il “quarto” che è documentato a Crotone nel Cinquecento[cliii] ed a Santa Severina nel Seicento. Qui la “litra” era suddivisa in 30 “oncie”[cliv].

La “cannata” è documentata a Melissa nel Cinquecento[clv], nel Seicento[clvi] e nel Settecento[clvii]. Alla fine del Settecento, ogni cannata era di 96 “once” e 55 cannate costituivano una “soma”. A quel tempo lo “staro Napolitano” era di rotola 10 e 1/3. Sempre alla misura napoletana, una “soma” era composta da 16 “stari”[clviii].

Il “militro” nel Cinquecento era in uso a Cirò[clix], Calopezzati[clx] e Crucoli, dove il Maone c’informa che 4 “militri” equivalevano ad uno “staro”[clxi], mentre le consuetudini di Crucoli del 1561 stabilivano: “… Che lo militro d’oglio habia da essere quattro rotola” (1 militro = kg 3,40)[clxii].

Tale misura era in uso anche a Cirò nel Seicento[clxiii], nel Settecento[clxiv] e lo era ancora alla metà dell’Ottocento, con le sue frazioni del “mezzo militro” e del “quarto”[clxv]. Qui, a quel tempo, 40 “militri” costituivano una “salma” ed ogni “militro” corrispondeva ancora a 4 “rotola” come a Crucoli tre secoli prima. In alcuni casi però, si considerava un “abatto” o “Abbattim.o” del 10 %, così la salma risultava di 176 “rotola” e non di 160[clxvi]. Nel Seicento troviamo la “litra” a Policastro[clxvii] ed a Mesoraca[clxviii].

Un uso generale e giornaliero

L’olio era conservato in casa nella “ciarra” o “giarra”, nelle più piccole “giarrotte” e nelle “lancelle”[clxix], dalle quali si prelevava per gli usi della cucina tra cui la frittura, come s’evidenzia già nel Quattrocento[clxx] a Le Castella e come ribadiscono gl’inventari e gli elenchi dotali seicenteschi di Policastro, nei quali risulta spesso la “frissura di ferro”[clxxi]. Assieme alle olive tenute nella “tina” che fornivano un altro prezioso alimento[clxxii], lo troviamo conservato nei “Catoi” delle abitazioni[clxxiii], mentre chi non possedeva delle piante d’olivo, se ne approvvigionava comperandolo nelle botteghe[clxxiv].

Altro olio era utilizzato dalla famiglia per alimentare le “lucerne d’oglio” grandi e piccole che consentivano l’illuminazione delle abitazioni[clxxv].

L’olio era considerato un bene tanto necessario per i bisogni umani che, ad esempio, i poveri di Melissa avevano negli oliveti “il diritto di sbarro, uso civico per cui qualsiasi cittadino può raccogliere nelle altrui proprietà le olive cadute anteriormente alla terza domenica di ottobre e dopo S. Nicola.”[clxxvi]. Antonio Cosentino fa notare che: “L’olio è un alimento così raro sulle tavole dei Melissesi da far nascere la leggenda secondo cui alla mezzanotte dell’Epifania dalla fontana pubblica più importante, quella di “Gardu”, sgorghi olio invece di acqua per chi ignori questo particolare fenomeno.”[clxxvii].

Oltre ad avere un importante valore nutrizionale per le popolazioni calabresi, poco surrogabile con altri grassi: “Essendo il Regno scarso di butiri, l’Olio si rende generalmente una derrata di prima necessità per il condimento quotidiano de’ cibi” ed essere quindi un prodotto di “uso generale e giornaliero”[clxxviii], l’olio aveva anche una dimensione importante nell’ambito del sacro, esprimendo valori culturali e rappresentativi fondanti.

Quantitativi considerevoli di olio erano così anche quelli destinati ad illuminare giorno e notte gli altari delle chiese, per i quali necessitava “comprare l’oglio che bisognerà per le lampade, che continuam.te stanno accese”[clxxix], mentre quello consacrato lo si usava per officiare i sacramenti.

Il “Sanctum Chrisma”, l’“oleum Cathecuminorum” e quello “infirmorum”, si trovavano nelle chiese riposti presso il fonte battesimale e nelle sacrestie, secondo i canoni e i precetti del rito latino[clxxx] mentre, dove persisteva il rito greco, si agiva diversamente.

Come, ad esempio, “In oppido de Papaniche”, dove, alla fine del Cinquecento anche se contrastato dal vescovo di Crotone, era ancora usato ungere il corpo degli infermi con l’olio della lucerna accesa in chiesa e non si usava la sacra unzione: “Et quoniam mos erat apud predictos graecos qui infirmi ungerentur post mortem oleo lucernae quae in ecclesia accensa est nec utebantur (sic) sacra unctio.e (sic) R.mus Episcopus ordinavit quae infirmi ungerentur more latinorum a presbitero latino dum non reperitur presbiter grecus qui hoc sacramentum ministret.”[clxxxi].

Come ci riferisce il marchese Grimaldi, oltre ad essere utilizzato “pel condimento quotidiano de’ cibi” e per i “lumi”, l’olio si usava anche “per fabbriche de’ panni e saponi, e per altri usi, e comodi della vita ”[clxxxii].

Lo si usava anche per lubrificare (“untare”) le parti dei macchinari sottoposte a frizione (argani, ruote, etc.), per cui è documentato sia l’uso del grasso animale (“sivo”) che quello dell’“oglio”[clxxxiii] mentre, “Sono alcuni anni, che in tutta l’Europa (e specialmente nel Regno) per alcune malatie si fa uso più frequente dell’Olio di Uliva, che di quello di Mandorle.”[clxxxiv].

Riguardo al suo uso medicinale, troviamo vari “ogli et unguenti” negli inventari delle spezierie del territorio, come alla fine del Cinquecento a Cutro[clxxxv] ed alla metà del Settecento a Crotone (“vasi d’oglio”, “Oglio di Castoro”, “Oglio di Car. C.”, “Oglio di Scorpione”, etc.)[clxxxvi].

In commercio

La scarsa consistenza olivicola dei centri interni del Crotonese facenti capo alle diocesi di Crotone, Isola, Santa Severina e Belcastro trova riscontro anche nella limitata attività commerciale riguardante l’olio nell’ambito di questi comprensori. Ne costituisce prova il movimento del porto di Crotone dove, a differenza di altre merci (grano, formaggio, etc.), l’olio non compare.

Siamo informati però che agli inizi del Cinquecento, in relazione allo “Jus Catapanie” spettante al feudatario, il baiulo di Le Castella esigeva “ab hesteris et advenis”, “p(ro) vendendo oleo exigit Dittus baiulus libram unam olei p(ro) qualibet summa”, dividendone i proventi a metà con il sindaco[clxxxvii]. Testimonianza che evidenzia la presenza del prodotto in questo importante centro portuale in maniera non episodica[clxxxviii].

A tale situazione facevano eccezione Cirò ed altri centri vicini, dove, accanto ad una maggiore estensione olivicola, si riscontra anche una certa attività commerciale che appare comunque limitata in relazione agli affari di alcuni feudatari ben collegati con il mercato napoletano, come mette in luce una “Emp.o olei p(ro) Ill. p(ro)spero Carrafa”.

Il 22 settembre 1570 14.a indizione, nella città di Santa Severina, si costituivano Antonio Russo assieme a Nic.s Russo “de Calopizato” e l’Ill.mo dominus Prospero Carrafa di Napoli. I due de Russo s’impegnavano a consegnare al Carrafa “in T(er)ra calopiciati tot mil[tri] olei boni et receptibilis et non fetentis p(er) totum [m]ensem de oc(to)bris secundi venturi anni 15 ind.s”, secondo il prezzo stabilito “ad fontem” e per il valore di ducati 40[clxxxix].

La fascia olivetata ai piedi della “montagna” presso Petilia Policastro (KR

La munizione del castello di Crotone

Durante la seconda metà del Cinquecento, l’olio di Cirò, assieme ai suoi vini bianchi e rossi, era richiesto per rifornire il castello di Crotone.

Il 30 settembre 1578, il castellano del castello di Crotone, Petrus Ramires de Arellano, nominava suo procuratore e nunzio generale Marco Antonio Lombardo “savoiense”, ma abitante nella terra di “Hypsigro”. Al Lombardo era assegnato il compito di comprare vino, oglio e frumento e ogni cosa necessaria per le munizioni del castello. Nello stesso giorno i due stipulavano un contratto per la fornitura di vino e olio per la munizione del castello di Crotone. Il castellano consegnava ducati 110 ed il Lombardo si obbligava a consegnare entro il mese di aprile, salme 161 e mezza di vino in questo modo: “salme dieci di vino rosso et laltro bianco il quale sara de optimo colore sapore bene addohanato et del migliore della terra del Ciro ad ragione de carlini undeci la salma et oglio doicento militri similmente per la monitione p.ta come andera alli fonti … oglio bono lampanti non fetenti et deli migliori de ditta terra del Ciro”[cxc].

A quel tempo l’olio del comprensorio cirotano, che s’imbarcava “alla marina di cruculli et de lo ziro”, era anche esportato, come ci segnala un atto della fine del secolo.

Il 30 maggio 1591 alcuni vascelli turcheschi predavano al largo del capo di Manna la barca del patrone Fabio Cacciotto di Procida, carica di vino e di alcune botti di olio che “havea carricato alla marina di cruculli et de lo ziro per conto della Ill. Cornelia Spinella contessa di Martorano et Ill. Virginia Caracciola marchesa de lo ziro per Napoli ed un’altra barca di Marcello Saraca di Reggio che havea carricato allo ziro di vino”[cxci].

Il barone di Crucoli

Gli oliveti appartenenti al feudatario di Crucoli durante il Cinquecento si segnalano nei relevi feudali già nella prima metà del secolo. Nella lista delle entrate esibita per il pagamento del relevio da parte del m.co Iulio de Aquino, figlio ed erede della baronessa di Crucoli q.m Aurelia morta il 3 maggio 1543, troviamo: “Lo giardino cum olive, fico et altri frutti se teneno per uso del castello, non se ne sole vendere ma se ne have una butte de oglio”[cxcii].

Le Entrate delle terre di Crucoli segnate nei relevi successivi, consentono di apprezzare più nel dettaglio: “Dall’Oliveto Marina e giardino – fitto in olio (ogni  4 militri = uno staro): Liquid. 1590: non indicato (militri 330 da grana 15 a carl. 2 al militro); Liquid. 1657: 240 (militri 80 a carl. 3); Liquid. 1709: 42:4:17 ½ (militri 286 ½ a grana 15 il militro).

Dall’oliveto Macchia del molino affitto ad olio ad anni alterni Liquid. 1590 (non indicati) (militri 30 al prezzo da grana 15 a carl. 2 al militro)”[cxciii].

Questi oliveti sono descritti in catasto alla fine del Settecento:

Verso borea poi si vede una lunga continuaz.ne di vasti uliveti, anco di pertinenza del Barone, che principiano da sotto il casino sud.o, e sieguono in linea retta verso Fiuminicà all’una, ed all’altra mano p(er) la lunghezza di cir.a due miglia, tutto in piano, e quasi tutto in semetria. (…) Gli uliveti predetti si portano, benchè fraudolentem.te, p(er) Feudali, e portano i seguenti nomi, cioè quello chiamato l’Uliveto propriam.te cosi detto Cassia, piano di Mazza, piano di Pasqua, piano di Ronci, macchia del molino. Tutti stati apprezzati nel general’apprezzo come quelli dell’Uni(versi)tà p(er) burgensatici, e l’annua rendita de’ sud.i corpi dò d. seicentosei, e g(ra)na sessanta”[cxciv].

Alla fine del Settecento, l’olio godeva di particolari esenzioni per quanto riguardava la sua estrazione dal porto di Cariati[cxcv].

Il barone di Melissa

Anche il feudatario di Melissa era possessore di diversi oliveti nei suoi territori. Nel 1549 in Melissa, sindaco Philippo Mauro e capitano Gio. Tomaso de Amato, il barone Gio. Battista Campitelli comprava un “olivetum cum aliis arboribus domitis et indomitis in loco la luneggia”, confinante con l’oliveto del barone dai fratelli Battista e Gio. Gregorio Cannata.

Il 30 maggio dello stesso anno s’impossessava della rimanente terza parte da Raniero Cannata, scambiando con il Cannata un suo oliveto situato in località S. Biasi. Questa terza parte, gravata da un annuo carlino alla chiesa di S. Giacomo, confinava con le due parti che erano state dei fratelli Battista e Gio. Gregorio Cannata, gli olivi del barone, gli olivi di Antonio Massa e gli olivi di Fabrizio Triato. Nel 1572 il successore, il barone Gio. Maria Campitelli, acquistava per ducati 12 un altro oliveto detto “l’Olivitello” da Hettore, Tiberio e Mario de Nocera[cxcvi].

Secondo Nuntiato Arcuri, erario della Corte comitale di Melissa dal settembre 1623 a tutto agosto successivo, il feudatario Annibale Campitelli possedeva numerosi oliveti feudali: “cioè Alonaggi e lo Runo”. Egli affermava “che l’olive un’anno sono fertili, et carricano, et l’altro nò, che p(er)ciò nell’anno di carricha può rendere da circa cannate seicento di oglio però nell’anno infertile sole rendere da circa cannate cento, et ducento inc.a conforme l’annate”.

Nel gennaio 1624 l’oliveto “d’Alonaggio” era affittato a Cola Falcone di Melissa per cannate trecento d’olio e l’oliveto “di Runo” ad Aurelio Nigro per cannate duecento d’olio. Il “trappeto de’ Basso” si affittò nel 1624 a Gio. Iacopo Samà di Melissa per cannate quaranta d’olio e il “trappeto d’Alto” si affittò nel 1624 a Minico Iondio di Melissa per cannate quaranta d’olio. In quell’anno l’olio si vendeva a carlini 2 la cannata.

In seguito i due trappeti si chiamarono il trappeto “d.o da Iuso” e l’altro “d.o lo brunno”, quest’ultimo pochi anni dopo “si è diruto”. I due oliveti erano anche chiamati “l’oliveto grande della Corte” e “l’olivetiello di Runo”[cxcvii].

In merito alla supposta natura feudale di questi beni, la risposta per il relevio di Melissa del 1624, non lascia margini di dubbio: “La 5.a partita e dell’oliveto grande trappeto et olivetello si averte et dice non esser feudali ma burgensatici pervenuti alli predecessori del detto Principe per titolo di compera come appare da quattro instromenti signati D E F e G et dalli detti instromenti si viene a rendere molto chiara et manifesta la falsita delli detti testimoni essaminati dal comm.o mentre essendo burgensatici loro dicono che sono feudali e falsi in unum presumuntur falsi in omnibus et si conferma magiorm.te dalli relevii precedenti che non vi sono oliveti feudali.

A Strongoli, nel piano del castello, Francesco Campitelli conte di Melissa e principe di Strongoli (1624-1668), possedeva cinque casette matte, che usava come magazzini, come stalle e per il centimolo e aveva anche “una casa terrana detta lo trappeto, due pagliere et una remissa di carozza”[cxcviii].

Successivamente, gli oleifici del feudatario di Melissa risultano nel bilancio del mag.co Gio : Dom.co Mazzei, erario di Melissa feudo dei Pignatelli, relativo al periodo dal primo settembre 1737 per tutto agosto 1738. In questo documento rileviamo la spesa “In fare accomodare li Trappeti, che erano sfatti d. 24.99”[cxcix], mentre in quello relativo allo stesso periodo, compilato del mag.co Agostino Cristofaro erario della Cam.ra Principale di Strongoli, risulta che qui lo stesso feudatario possedeva il “Trappeto dentro la Città” ed il “Trappitello”[cc], mentre anche in questo caso, si registra la spesa “In fare accomodare i Trappeti”[cci].

Al tempo della compilazione del catasto onciario (1742), questi due oleifici esistevano ancora[ccii] mentre, alla fine del secolo, il feudatario possedeva in Melissa un solo oleificio.

Dalle registrazioni della “Cassa del Reg.o Feudo di Melissa”, effettuate dal primo settembre 1799 a tutto agosto 1800, apprendiamo che durante il mese di settembre erano state fatte le spese “Per far accomodare, e mettere in Macina il Trappeto di melissa (…) d. 15:06”, e che erano state date le somme dovute  “A Dom.o Zito, e Gino Candioti per aver apprezzato le Ulive, e Ghiande di Melissa (…) d 4:60” ed “A M(ast)ro Andra Gatto per una Cannata di Creta p(er) misurare l’Oli del Trappeto di Melissa (…) d. 0:15”. Nel mese di gennaio 1800, lo stesso mastro era stato pagato per la fornitura di “giarre”: “Allo stesso per n.o 10 giarre per riporvi l’Oli delle ulive di Melissa, che da quei Fittuari si dovea consegnare lampante (…) d. 6:00”[cciii].

A quel tempo, l’intero “fruttato” di Strongoli e Melissa era di quasi 2500 cannate di olio che si vendeva in Napoli a grana 40 la “Cannata”.

Dal “Conto della Cantina d’Olio in Fasana dal 1799 al 1800 in potere del Fattore Nicola Parise”, apprendiamo che per quanto riguardava Strongoli, quest’olio proveniva dai corpi di “Fasana”, “Inchiuso”, “Giudeo, e Serpito”, “Villarvo”, “Corallo, e Spataro”, “Feudo di Cassano”, “S: Croce”, “Montalcino” e “Amendola”, mentre per Melissa, proveniva dai corpi: “Porticella”, “Derutti”, “Pignatari”, “Succureo”, “Campo”, “Chiuse”, “Murtari”, “Sorvia”, “Claudi”, “Giacchetta” e “Scalilla, o sia Pirozolo”[cciv].

Nobili imprese

Durante la seconda metà del Settecento l’olivo s’estese maggiormente nei luoghi costieri del Marchesato rispetto al passato, per opera di feudatari e nobili che fecero nuove piantagioni o ampliarono quelle esistenti presso le proprie strutture d’ammasso rurali lontano dagli abitati, dove gli olivi, potendo godere di una certa sicurezza, prospereranno anche in seguito.

Tra le opere fatte a Cirò dal vescovo Domenico Peronacci (1732 -1775), vi era quella di aver valorizzato i due fondi della chiesa detti Salvogara e Mandorleto “che erano ricovero d’animali selvaggi”, trasformandoli “in coltura, olivetati, con sue case per i coloni, e con giardini di agrumi che hanno prezzo” e di aver costruito al posto delle molte casette, che costituivano la residenza vescovile, un palazzo dalla nobile struttura[ccv].

Dall’apprezzo compilato dal tavolario Giovan Battista Manni sul finire del Seicento, si apprende che tra i beni feudali di Cirò vi erano “la possessione detta l’Alice con suo giardino, passo, falangaggio e Palazzo, quale sta situato nel più eminente luogo di detto giardino, seu possessione, nel quale territorio vi sono sette piante di amendole, dodici di cedrangolo, certe poche viti, piante di pruna, di pera, di mela, e di olive. Il palazzo è di figura quadra, con quattro baluardi a modo di fortezza … la difesa piana … quale al presente serve per pascolo, e può servire anche per semina, e vi sono certi piedi di cerque e lentischi … l’oliveto grande … nel quale vi sono certe partite boscose con lentischi ed olivastri … vi è una torre vecchia sfondata vicino la quale vi è una cappella sotto il titolo di S. Maria della Catena e vicino l’olivetello vi è un trappeto di fabrica per macinare ulive quale consiste in due bassi …”[ccvi].

Al tempo della compilazione del catasto onciario di Rocca di Neto (1742), rileviamo che il principe di Cerenzia possedeva un territorio di 600 tomolate, parte seminatorio, parte boscoso e parte alberato ad olivi, in località “Pelligronio” confinante coi beni burgensatici della Camera Baronale di Rocca di Neto[ccvii].

Successivamente, durante la prima metà dell’Ottocento, Poligrone passò ai Barracco che approfittarono delle difficoltà finanziarie del principe di Cerenzia Tommaso Giannuzzi Savelli. A Guglielmo Barracco si deve la valorizzazione del territorio che effettuò, tra l’altro, riconvertendo in oliveto gli oleastri del vasto comprensorio. “Appartenevano alla masseria anche case, magazzini, mulini, frantoi, trappeti ecc.. (…) Particolarmente importante era la produzione di olio, di cui era testimonianza il grande ed antico frantoio di Poligrone. A causa dei moti popolari del 1848 il barone Luigi Barracco denunciò la perdita di 4172 militri di olio conservati in Poligrone”[ccviii].

Nel 1732 le vigne del q.m marchese D. Fabritio Lucifero ad Apriglianello si trovavano nella “Gabella detta di S. Giovanne”, confine alla “Torre, seu Palazzo” con più e diversi alberi fruttiferi e piedi d’olive, con casella, parmento e “Trappeto”. Qui si trovava anche “l’oliveto” del detto q.m marchese[ccix].

Sempre in territorio di Crotone, dall’“Inventario osia annotaz(io)ne de Beni romasti nell’eredità della qm D. Anna Suriano, madre di noi sott(oscritt)i D. Rafaele e D. Gabriele Suriano”, apprendiamo che il feudo rustico detto “La Garruba” confinante con Giammiglione, era stato “migliorato nella maniera, che oggi si vede, con esser stata serrata di fossi, e mura di pietra secca; vi si piantarono più migliaia di piante di oliva, vigne, ed altri alberi fruttiferi di diverse specie, vi si fabricò un casino, e vi si fecero altre diverse fabriche per uso di chiesa, magazzini, trappeto, stalla, ed altro, come attualmente vi si osservano, di modo che, dove prima detto feudo valeva senza detti miglioramenti c(irc)a doc(a)ti duemila ed ottocento oggi vale da doc(a)ti quindicimila.”

Nello stesso documento risulta annotato tra i debiti: “All’eredi del qm D. Bernardo Suriano per d(ett)i miglioramenti di Piantaggioni di olivi, vigne, ed altri alberi fruttiferi, fatti nel sud(ett)o feudo della Garrubba, come sopra doc(a)ti quattromila”[ccx].

“All’inizio del Novecento la masseria assieme ad una vasta estensione di terreno circostante fu donata da Bernardo Albani all’orfanotrofio di Crotone. Nel 1930 Giammiglione di 30 ettari di oliveto è di proprietà dell’orfanotrofio femminile di Crotone”[ccxi].

Alla metà del Settecento, il marchese Francesco Cesare Berlingieri  realizzò un oliveto nel corso di Forgiano ad Isola. “Anche il barone fa impiantare nel terzo delle Manche di Manacharia un grande oliveto chiuso con fossi ben profondi, per non farlo rovinare dagli animali al pascolo”[ccxii], mentre Francesco Antonio Sculco “Disbosca parte di Jannello e vi fa una chiusura con giardini e piante di olivi e da frutto, sulla collina costruisce, o completa, un casino con più camere, vaglio, magazzini e capelliera”[ccxiii].

Nel Marchesato di Crotone

Sul finire del Settecento, avendo avuto l’incarico di visitare le provincie del Regno di Napoli, Giuseppe Maria Galanti (1743-1806) produsse alcune relazioni che, tra l’altro, descrivono accuratamente lo stato dell’agricoltura dei luoghi[ccxiv].

Riguardo alla coltivazione dell’olivo nel “Marchesato” di Crotone “il quale si estende dal Nieto a Catanzaro  per lo spazio di circa 50 miglia”[ccxv], egli notava che “vi sono quasi niente alberi. Vi si veggono poche vigne, nelle quali si trovano alberi da frutti”[ccxvi] rilevando, invece, che a nord del fiume, “Gli ulivi sono scarsi in Terranova, abbondanti in Corigliano, più in Rossano e Cirò. Negli altri luoghi sono in minore quantità. (…) Gli ulivi sono ben coltivati, e questa coltivazione si rende sempre più perfetta. Si arano, si putano, si concimano. Questo però è nel generale.”[ccxvii].

Assieme al vino egli rilevava tra i prodotti locali “riputati” l’olio di Cirò[ccxviii], dove oliveti consistenti s’estendevano  dall’abitato verso la marina: “Il mare è distante da Cirò 4 miglia. Questo tratto è in buona parte coperto da uliveti e giardini di agrumi”[ccxix], a differenza dei centri vicini di Strongoli e Melissa che “hanno delle terre fruttifere in grano, ma non in ulivi.”[ccxx].

Alla scarsa presenza dell’olivo lungo la fascia costiera del Marchesato, faceva ricontro una maggiore presenza degli oliveti nelle aree collinari interne. Le ragioni di tale situazione discendevano dall’assetto economico-produttivo del territorio che nel quadro del suo indirizzo cerealicolo-pascolativo, vedeva la pianura costiera destinata al pascolo invernale delle mandrie nelle annate in cui questo succedeva al grano. Un indirizzo che già a quel tempo, aveva modificato consistentemente il paesaggio, avvicinandolo a quello che oggi abbiamo sotto gli occhi:

Le colline vicino Cotrone sono assolutamente di creta bianca sterile, delle quali si possono lavorare anche vasi cotti. Tali colline sono spogliate di erbe, e sono frequenti per tutto il Marchesato. Sono assai scoscese, dalle quali le acque hanno trasportato tutta la terra vegetabile. Tali colline sarebbero capaci di produrre se ci si sapesse mescolare altre terre.”[ccxxi].

 

L’incompatibilità tra la presenza degli animali vaccini che ciclicamente discendevano nelle pianure del Marchesato a svernare per la loro transumanza e gli oliveti ci è così descritta:

Di ulivi ve ne sono pochi, per le quali sarebbe attissimo il terreno. Per piantarsi vi è bisogno di forastieri. Sulle colline del Marchesato ve ne sono in maggiore quantità. Siccome ne’ mesi di servitù gli animali errano a loro arbitrio per le campagne, gli animali saltano i fossi e devastano le piantagioni degli ulivi. Per questo lato la proprietà de’ luoghi chiusi e piantati non val niente. Gli animali vaccini sono i più dannosi agli ulivi. Nelle vigne gli ulivi, perché custoditi, prosperano. (…) Abbiamo notato che la bava de’ bovi è tanto perniciosa agli ulivi, che quando sono toccati da’ medesimi, è partito migliore sradicarli e piantarvi di nuovi che aspettare che si ripiglino.”[ccxxii].

Note

[i] Pesavento A., L’abitato di Alichia, la foresta regia ed il palazzo Alitio, La Provincia KR nr. 19-20/1998.

[ii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, pp. 27-30.

[iii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, p. 98-100. L’ “Agrillo” si ritrova in documenti scritti in greco del 1125 (“ἀγριελαιίου”. Trinchera F., Syllabus Graecarum membranarum 1865 p. 127 n. XCVII) e del 1139 (“ἀγριελαιόνα”/“ἀγρηελαίον”), dove si menziona anche un “ἀγριλλος ὁ μεγας” (Ibidem, pp. 161-162 n. CXXI).

[iv] ASN, Regia Camera della Sommaria, Materia Feudale, Relevi – Inventario, vol. 346, fasc. 32, f. 356v. AASS 007A, f. 39v. AASS, 017B. AASS 014A, f. 1. AASS, 124B. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro Policastro, Busta 78, prot. 286 ff. 29v-30v e ff. 180v-182; prot. 292 ff. 087-088. AASS 082A, ff. 21-22.

[v] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 288 ff. 098-099v.

[vi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 300 ff. 063v-064v.

[vii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 161v-162v e ff. 208-208v.

[viii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 305 ff. 031v-033; Busta 78 prot. 290 ff. 010-010v.

[ix] Il 16.05.1643, il notaro Joanne Leonardo de Pace di Policastro vendeva al chierico Ferdinando Campitello di Policastro, il “petium Terrarum aratoriarum” di circa 12 tomolate “cum Gruttis et prato superius Vulgo dicto logliastretto” posto nel “districto” di Policastro loco detto “Marrari”, confine i beni di Joannes Baptista Callea, i beni della “Cappelae Sancti Antonii”, i beni del detto de Campitello via mediante, i beni di Fabritio Faraco ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182, prot. 802 ff. 059v-060v.

[x] AASS, 109A, f. 262.

[xi] AASS, 001A, Reintegra di Andrea Carrafa, f. 23.

[xii] AASS 003D fasc. 1.

[xiii] AASS, 004D fasc. 4.

[xiv] Cosentino A., Melissa Medievale e Moderna 2001, p. 272.

[xv] Spizzirri M., Rocca di Neto nel Catasto del 1742, 1995, p. 196.

[xvi] ASN, R. Camera della Sommaria, Catasto Onciario di Crotone 1743, 6955, f. 211.

[xvii] Fiore G., Della Calabria Illustrata, tomo I 1691, Ed. Rubbettino 1999 p. 540.

[xviii] Le fonti antiche, quali Catone (De agri cultura, 6, 1-2), Varrone (De re rustica, I, 24, 1-2), Plinio (Naturalis historia, XV, 4), Columella (De Re Rustica, V/8-1-3), Macrobio (Ambrogio Theodosio Macrobio, Saturnalia, ed. Typis et Sumptibus Godofredi Bassii1852, vol. II, III, 20, 6, pp. 359-360) e Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XVII, 7, 62-68), riferiscono l’esistenza di diverse varietà di olivo coltivate al loro tempo, senza che oggi risulti possibile provare un accostamento con quelle attualmente conosciute. Per epoche più recenti e per quanto attiene al territorio di Cirò, alla metà dell’Ottocento, il Pugliese ci fornisce un elenco delle principali “specie di ulive” conosciute e coltivate a quel tempo:

“Le specie di ulive comunque varie si riducono generalmente alle seguenti:

  1. Oliva dolce non tanto grossa, ma la più oleosa.
  2. Carolea, poco più grossa della dolce, ma di minor rendita.
  3. Fivoza, lunga, grossa ed oleosa.
  4. Napoletana e pizzutella, secondo i luoghi soggetta a fallire, e perciò si bandisce.

Ve ne ha due o tre altre specie grosse e da concia, e ve ne ha di delizie qualche piede come l’uliva a mortella, e quella di tre raccolte.

  1.  
  2. Lumia, quasi simile alla fivoza.
  3. Pallucia, di raro se ne rinviene qualche piede; Si fa subito nera, e molle.
  4. Corniola, è buona per serbare in concia salata.

(Pugliese G. F., Descrizione ed Istorica Narrazione di Cirò, Napoli 1849, vol. I pp. 66-67).

[xix] 22.03.1620. In occasione di una vendita, fatta dal chierico Joanne Berardino de Ascano di Policastro a D. Joanne Liotta vicario foraneo di Policastro, per altra parte del pagamento, il detto D. Joanne cedeva al detto Joanne Berardino, la metà dei gelsi posti nel loco detto “Gorrufi”, “della olivella in su verso la via publica”, confine la possessione ed i gelsi di Scipione Romano e la possessione di Gio : Fran.co Rizza dalla parte di sopra mediante la detta via pubblica. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 292 ff. 015-015v.

[xx] AASS, 072A.

[xxi] AASS, 016B.

[xxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 234-234v; prot. 287 ff. 029-030 e ff. 213-213v; prot. 289 ff. 038-038v; prot. 290 ff. 023-025v e ff. 081-082v; prot. 292 ff. 078-079; Busta 79 prot. 294 ff. 087-088v e ff. 099-099v; prot. 295 ff. 012-013, ff. 093-093v e ff. 127-128v; prot. 298 ff. 063-063v; Busta 80 prot. 302 ff. 011v-012v; prot. 306 ff. 074-075v e ff. 073v-076v; Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 806, ff. 074v-078.

[xxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 160-160v; prot. 287 ff. 070v-071 e ff. 203-203v; prot. 288 ff. 064v-065; prot. 290 ff. 023-025v; prot. 291 ff. 017-018; Busta 79 prot. 293 ff. 069-070; prot. 294 ff. 006-006v e ff. 007-007v; prot. 295 ff. 076-076v; prot. 296 ff. 064v-065 e ff. 164-165v; prot. 297 ff. 095-096, ff. 161v-162v e ff. 178v-179; prot. 298 ff. 068-068v; Busta 80 prot. 301 ff. 147v-148v; prot. 303 ff. 065-066 e ff. 106-107v; prot. 304 ff. 031v-033v; prot. 305 ff. 108v-109.

In una sola occasione figura come Santa Maria “l’oliva” (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 803, ff. 013-015v) come la chiama il Mannarino (“dell’oliva”) agli inizi del Settecento (Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro 1721-23).

[xxiv] AASS, 037A.

[xxv] ASCZ, Catasto di Crucoli, f. 325v.

[xxvi] “Olivella”. ASCZ. 496, 1702, 56-59; 49, 1610, 42-43; 334, 1672, 7-8; 613, 1722, 133; 497, 1708, 51.

[xxvii] Rende P., “La vite e la vigna nella valle del Tacina. Alcune Caratteristiche e Particolarità”, wwwarchiviostoricocrotone.it 2013.

[xxviii] 05.07.1629. Per consentirgli di ascendere agli ordini sacerdotali, Luca Cavallo di Policastro donava al cl.o Joanne Baptista Cavallo suo figlio, la vigna arborata con “uno pede olive” posta nel territorio di Policastro loco “la chianetta” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 033v-034).

08.12.1635. Alla dote di Elisabetta Rocca di Policastro apparteneva la vigna arborata di “fico” ed altri alberi fruttiferi “con una troppa di oliva” posta nel territorio di Policastro loco “la pianetta”. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 302 ff. 126-127v).

[xxix] In un atto del 1661, relativo alla stima di un danno a seguito di un incendio, leggiamo: “… e considerato l’olive bruggiate al num.o di cinque piedi, hanno stimato di danno docati diece …” (AASS, 039A f. 96).

[xxx] Pugliese G. F., Descrizione ed Istorica Narrazione di Cirò, Napoli 1849, vol. I pp. 77-78.

[xxxi] De Leo P. (a cura di), Documenti Florensi 2001, pp. 032-034.

[xxxii] Pratesi A., cit., pp. 267-269.

[xxxiii] Ibidem, pp. 364-366.

[xxxiv] Ibidem, pp. 380-382.

[xxxv] De Leo P. (a cura di), cit., pp. 051-053

[xxxvi] Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 6190, f. 205.

[xxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. sciolti s.n. Il Grimaldi riferisce: “… propagandosi gli Ulivi o co’ piantoni , che si levano dal piè dell’Ulivo, o col sotterrare il tronco del medesimo, o pure coll’annestare gli Ulivi salvatichi, o sia gli Oleastri, …” (Grimaldi D., Istruzioni sulla Nuova Manifattura dell’Olio introdotta nella Calabria dal Marchese Domenico Grimaldi di Messimeri Patrizio Genovese, 1773, Ed. Rubettino 2006 p. 42)

[xxxviii] Pesavento A., Vita economica di un convento nella prima metà del Settecento: il convento di S. Francesco di Paola di Roccabernarda, La Provincia KR nr. 42-43/2001.

[xxxix] ASCZ, Cassa Sacra, Segreteria Pagana, Busta 50, fascicolo 784.

[xl] “Nel 1709 l’inverno fu così rigido che seccarono olivi, viti ed altri alberi fruttiferi” (Pugliese G. F., cit. p. 113).

[xli] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 87-88.

[xlii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 293 ff. 038v-043v.

[xliii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 063-064.

[xliv] ASN, Regia Camera della Sommaria Patrimonio Catasti onciari, busta 6991.

Il bracciale Antonino Naturile possedeva un vignale nel luogo detto “li Cugni” “alberato di puochi piantoni d’agliastri Confine quello di Gius.e Comberiati che per esser stato piantato a puoco tempo frutta niente” (f. 96).

Il bracciale e soldato del battaglione Antonio Lazaro possedeva “Altri piantoni d’agliastro piantati l’anno passato nel luogo detto li Cugni Confini alla pianta di M(ast)ro Nicola Rotella che non fruttano Cosa alcuna.” (f. 101-101v).

Il bracciale Giuseppe Schipano, possedeva “una pianta d’agliastri nel luogo d.o li Cugni d’una meza tt.a in Circa”, confine quella di Andrea Scalese che “non dona frutto alcuno perché principiata nell’anno passato” (ff. 32 e 172v).

Francesco Migale mastro di sedie di paglia o seggiaro ovvero bracciale, possedeva “Uno vignale alberato di piantoni d’ogliastri nel luogo detto li Cugni”, confine quello di Nicola Carvello che “p(er) adesso non dona rendita” (f. 19 e 128v-129).

Il bovaro o vaticale Francesco Comberiati, possedeva “Uno pezzetto di terra alberato con puochi piantoni d’ogliastri”, confine Lorenzo Scalese che “non dona rendita” (f. 19 e f. 129).

Il bracciale Matteo Bruno possedeva “Uno pezzetto di terra con puochi piedi d’ogliastri nel luogo detto Li Cogni non dona rendita” (ff. 43v e 192v).

Marco Guzzo bambacaro ovvero mastro di batter bambace, offeso nella vista ed ernioso, possedeva “Uno vignale sito nel luogo detto li Cogni con puochi viti, e piantoni d’ogliastri, e peri, dedotta la Coltura non dona rendita” (ff. 43v e 194).

Il bracciale Natale Saporito possedeva un vignale “nelli Cugni”, ovvero “Due pezzetti di terra nel luogo detto li Cogni luogo Com.e”, “alberati di piantoni d’ogliastri non donano p(er) adesso rendita”, confine il vignale del dottor fisico Antonio Madia e le terre di Gio : Battista Caccuri (f. 49).

Nicola Carvello di Francesco massaro o vaticale, possedeva “Uno pezzetto di terra alberato con puochi piantoni d’ogliastri” nel luogo detto S.to Demetrio che “p(er) adesso non rende” (ff. 49 e 202-202v).

Il bracciale Natale Melissa possedeva “Un’altro pezzetto di terra nel luogo detto S.n Demetrio Con diece piantoni d’ogliastri”, confine Giovanni Carvello che “p(er) adesso non donano frutto” (ff. 49 e 202v-203).

Il bracciale Tommaso Grosso possedeva “Uno vignale alberato di piantoni d’ogliastri” nel luogo detto “le Pianette” di 1 tt.a ed ¼ circa, confine la vigna di Salvatore Milea ed una vigna dotale “alberata con piantoni di ulive” sempre nel luogo detto “le Pianette”, confine la vigna del magnifico Giacinto Sellitta che dedotta la spesa della coltura non dava rendita alcuna, ma “solam.e dalli piantoni dell’ulive ne percepisce una litra d’olio p(er) ogn’anno” (ff. 61 e 227-227v).

[xlv] Pugliese G. F., cit. p. 78.

[xlvi] AASS, 047B.

[xlvii] “Stefanus Arcomannus cum jur.to dix.t tenere quemdam hortum in loco ditto Gottoneri arboratum piris uno pede olivae et uno pede Ficus capacitate thumulatae mediae iux.a viam pu.cam qua itur ad Fontem Goctoneri iux.a hortum Curiae quem tenet Thomas bucchinfusus iux.a Timpam de lo Jocastro ante portam dittae civi.tis dittam portam vecchiam” (AASS, 1A f. 12).

[xlviii] “Thomas buchinfusus cum jur.to dix.t se tenere locum unum arboratum certis pedibus olivarum positum in Tenimento dictae civi.tis in loco ditto goctoneri iux.a Fontem publicum (sic) dictae civi.tis viam publicam et al(io)s fines” (ibidem, f. 13).

[xlix] “Item olivetum Cum Terreno vacuo prope timpam p.tam quod occupavera[t] Joannes piczichinus iux.a olivetum quod tenebat franc.s bodinus et scquiglium sive gructam quam tenebat Joannes novellisius.

Item olivetum unum subtus Timpam de grecia ubi d(icitu)r Boccaccio quod occupaverat franc.s bodinus iux.a olivetum quod tenebat Joannes pizzichinus et scquiglium heredum stafani de lauria.

Item scquiglium unum cum gructa in T[imp]a de buccazo quod occupaverat heres stefani de Lauria iux.a olivetum quod tenebat franc.cus bodinus (…) Curie reddititium quod tenet Diaconus Cobellus Nic[olucca]” (ibidem, f. 62).

[l] “Pyrrhus de valente cum jur.to dix.t se tenere locum quemdam arboratum arboribus amigdolarum et ficuum capacitatis unius quartucciate positum in Tenim.o d(ic)tae civi.tis subtus portam novam iux.a olivetum Fran.ci Jaquintae vineam Alexandri gisolfi et viam publicam” (ibidem, f. 13).

“Franc.cus Jaquinta dixit cum jur.to h(ave)re et possidere in loco ditto Fiuremendole olivetum unum et quedam Vinealia arborata arboribus amigdolorum ficuum et olivarum capacitatis Thumulatarum duarum ab oriente iux.a olivetum Antonii de gallucio et Joannis iaquinte a borea iux.a bona dicti Joannis Jaquintae et iux.a bona eiusdem fran.ci quae fuerunt Richardi et Nardi cirigeorgii ab occidente iux.a bona Alex.dri gisolfi a meridie iux.a viam pu.cam” (ibidem f. 16v)

[li] “Idem Franc.s pro Terreno ibidem et Vinealibus arboratis arboribus olivarum capacitatis thumulatae unius in semine ab oriente et borea iux.a bona Jo : iaquintae et viam pu.cam dictam de le Carre vecchi ab occidente iux.a bona d(ic)ti Alex.i gisolfi a meridie iux.a bona ip(si)us Franc.ci” (ibidem, f. 16v).

[lii] “Alexander gisolfus pro Terreno in loco dicto Fiore mendole subtus portam novam arborato arboribus olivarum Pirorum Ficuum et amigdolarum capacitatis unius Thumulatae ab oriente et borea iux.a vineas et olivetum franc.ci Jaquintae ab occidente iux.a viam publicam a meridie iux.a Terrenum Joannis valenti et dicti Fran.ci Jaquintae” (ibidem f. 16v).

[liii] “Joannes de valente dix.t cum jur.to h(ave)re certum Terrenum arboratum amigdolis piris ficubus et olivis capacitatis thumulatae mediae iux.a viam publicam qua itur ad Colle de s.to Andrea iux.a aliam viam publicam qua itur ad Conam al(ia)s de li Carre vecchi q(uo)d Terrenum est positum in Tenim.to dictae Civi.tis in loco ditto Fiore mendole” (ibidem, f. 16).

[liv] “Joannes Joaquinta cum jur.to dix.t se tenere et possidere olivetum unum et Vinealia in dicto loco de Flore mendola arborata arboribus Pirorum amigdolarum ficuum et olivarum capacitatis thumulatarum quatuor in semine cum certa mancha nemorosa iux.a bona Joannis novellisii et Vineale Beatricis filiae Roberti de planis a parte orientis a borea iux.a viam pu.cam dictam la via de li Carra vecchi ab occidente et meridie iux.a bona sup.ti Fran.ci Jaquintae et Antonii de galluciis” (ibidem, f. 17).

[lv] “Beatrix Filia Roberti de planis cum jur.to dix.t tenere et possidere in loco p.to de flore mendole vineale unum arboratum olivis ab oriente iux.a olivetum et vineas N. Caesaris Zurli a borea iux.a viam pu.cam dictam la via vecchia de le Carra ab occidente et meridie iux.a bona dicti Jo : iaquintae in capacitate thumulate unius et mediae” (ibidem, f. 17).

[lvi] “Joannes Ant.s morronus cum jur.to dix.t se tenere Vineale unum ibidem capacitatis thumulatae unius in semine arboratum arboribus olivarum Ficuum et amigdolarum ab oriente iux.a bona illorum de Leo a borea iux.a bona N. Caesaris Zurli ab occidente iux.a bona Joannis novellisii a meridie iux.a bona illorum de Leo” (ibidem, f. 17).

[lvii]           “Idem N. Caesar Zurlus cum jur.to dix.t tenere et possidere olivetum unum et vineas ibidem contiguas cum Torculari (sic) lapideo intus fabricato in loco ditto Fiore mendole capacitatis thumulatarum sex parum plus vel minus Cum arboribus olivarum sicomorum amigdolarum vitum et aliis arboribus fruttiferis ab oriente et borea iux.a viam pu.cam ab occidente iux.a vineale Beatricis de planis a meridie iux.a bona Joannis Novellisii et iux.a bona Jo : Antonii morroni” (ibidem, f. 14).

[lviii] “N. Joannes Novellisius cum jur.to dix.t tenere et possidere olivetum unum et vinealia ibidem a flore mendole arborata arboribus olivarum Ficuum et sicomorum et parte nemorosa ab oriente iux.a bona illorum de leo et bona dicti Jo : Antonii morroni a borea iux.a bona N. Cesaris Zurli et dictae Beatricis de planis ab occidente iux.a bona Joannis iaquintae et N. Antonii de galluciis a meridie iux.a bona q(uae) fuerunt q(uondam) scipionis infosini posita allo Timpone deli Judei” (ibidem, f. 17v).

[lix] “N. Antonius de gallucio cum jur.to dix.t se tenere et possidere quoddam olivetum positum in Tenim.to dictae Civitatis cum diversis arboribus in loco dicto lo Timpone de li Judei iux.a olivetum franc.ci Jaquintae iuxta olivetum Joannis novellisii et alios fines” (ibidem, f. 16).

[lx] “Nicolaus novillisius et Joannes cantarinus dixerunt cum jur.to h(ave)re et tenere in loco dicto Cocina quoddam petium Terre sive locum capacitatis thumulatarum medie arboratum ficubus et olivis qui fuit sarri de Leone ab oriente iux.a olivetum et T(er)ras Nicolai Sacci a borea iux.a bona ipsorum Nicolai et Jo(ann)is burgensatica ab occidente iux.a bona hier.mi de piris et bona ipsorum Nic.ai et Jo(ann)is a merid.e sim(i)l(ite)r iux.a bona p.torum Jo : et Nicolai” (ibidem, f. 20v).

[lxi] “(…) Fuore della detta Città p(er) lo Territorio vi sono  molte chiese e cappelle.

La Chiesa di Santo Pietro, Santo stefano Protomartire, Santa m.a della Stella, Santa m.a de Condoleo, Santa m.a di buon Calabria, Santo Nicola, S.to Cosimo et Damiano, San Giorgio, Santa m.a de Puellis, Santa m.a della Neve, Santa m.a delli frati, Santo Vito e modesto, Santa Lucia, Santa m.a della Grotte, Santo Nicolò di almeri, S.ta m.a della Gratia di Pagano, Santo Nicola di Cocina. Le quale stanno circum circa la Città nelle quale si Celebra a devotione et nel Giorno della Festività quale vanno con la Città di Santa Severina. (…)” (AASS 31A, Apprezzo 1653 f. 23).

[lxii] 1548. “laereda de m(esser) marcho Antoni de dato (…) et p(er) lo olivito fo di girolimo abinabile d. 0.0.6” (AASS, 3A, f. 62). 1550. “laereda de m(esser) marco Antoni de dato (…) et p(er) lo olivito fo di girolimo abinabile d. 0.0.6” (AASS, 3A, f. 90v). 1555-58. “lereda de M(esser) marcantoni de dato (…) et p(er) lo holivito fo de girormo abbinabile paga lo anno grana sei” (AASS, 4A, f. 28v). 1564. “lereda de M(esser) marcantoni de dato (…) et p(er) lo olivito fo di girormo abbinabbile d. 0.0.6” (AASS, 3A, f. 182v). 1564-65. “l’her.a de m(esser) Marco Ant.o de dato (…) et per l’olivito fu di ger.o habinabile d. 0.0.6” (AASS, 5A, f. 37v). 1568. “La her.a del q.dam Marco ant.o de dato (…) Et più per uno loco fo di hier.mo abinabile paga lo anno d. 0.0.6” (AASS, 3A, f. 146v).

[lxiii] 1548. “Laereda de m(esser) miliagro infosino (…) et p(er) lo olivito fo de joanbap.ta pilante d. 0.1.6” (AASS, 3A, f. 52v). 1550. “Laereda de m(esser) miliagro infosino (…) [et] p(er) lo olivito fo de joanbap.ta [pila]nte d. 0.1.[6]” (AASS, 3A, f. 83v). 1555-58. “Lerede de M(esser) miliagro infosino (…) Et p(er) lo olivito fo de janb.ta pilante paga lo anno grana vinti sei” (AASS, 4A, f. 2v). 1564. “Lereda de M(esser) miliagro infosino (…) Et p(er) laulivito fo de Joanbattista pilanza d. 0.1.6” (AASS, 3A, f. 173v).

[lxiv] 1548: “laereda de filippo terzigna p(er) uno olivito ad lanunciata d. 0.0.5” (AASS, 3A, f. 52). 1550: “laereda de filippo tercigna p(er) lo olivito de lanunciata d. 0.0.[5]” (AASS, 3A, f. 83). 1555-58: “larede de folippo tercingna p(er) uno olivito alla nociata paga lanno grana cinque” (AASS, 4A, f. 1v). 1564: “Janantoni tersigna p(er) uno mezo olivito alla nociata d. 0.0.2 ½” (AASS, 3A, f. 173). 1564-65: “Joanniantonio Tersigna per un’mezo oliveto alla nociata paga l’anno gr(an)a doi et mezo” (AASS, 5A, f. 2r). 1568: “Paulo baccaro (…) Donna hier.ma sua mogliere p(er) uno mezo loco alla nuntiata vechia paga lo anno d. 0.0.2 ½ (AASS, 3A, f. 149). 1577: “Ant.o vaccaro (…) p(er) lo loco dela Annuntiata vecchia tre grana d. 0.0.3” (AASS, 13B f. 32). 1582: “Ant.o vaccaro (…) p(er) lo loco de la nuntiata vecchia d. 0.0.2 ½ (AASS, 3A, f. 119v). 1582: “fran.co ndara (…) p(er) lo meczo loco alla nuntiata vecc.a d. 0.0.2 ½” (AASS, 3A, f. 120v).

[lxv] 1548: “Mastro Joanni Tosscano p(er) uno olivito sucto la crecia d. 0.1.2” (AASS, 3A, f. 57v). 1548: “Stefano fiassco p(er) uno olivito sup.to la grecia d. 0.0.16 (AASS, 3A, f. 72). 1550: Stefano fiassco p(er) uno olivito sucto la grecia d. 0.0.16 et p(er) un altro olivito fo di Joanni tosscano d. 0.1.2” (AASS, 3A, f. 98v). 1555-58: “Stefano fiasco p(er) uno holivito sutta la grecia fo de yacopello dammino paga lo anno grana sidici Et p(er) unaltro olivito fo de m.o joanne paga lo anno carlini dui et grana due (…) d. 0.1. 18” (AASS, 4A, f. 58v). 1564: “Lareda de Stefano fiasco p(er) uno olivito sotto la grecia fo de Jacopello d’amino d. 0.0.16. Et p(er) unaltro olivito fo de joanni toscano d. 0.1.2” (AASS, 3A f. 191). 1564-65: “L’her.a di stefano fiasco Per uno olivito sotto la grecia fu di jaco.llo di amminò pagha l’anno gr(ana) sidici d. 0.0.16 et p(er) l’olivito fù di jo : tuscano d. 0.1.2” (AASS, 5A, f. 64v). 1568: “La her.a di stefano fiasco p(er) uno oliveto sotto la grecia fo di jacobello di àmino pago lo anno d. 0.0.16 Et p(er) piu per unaltro oliveto fo di m.o joanne tuscano paga d. 0.1.2” (AASS, 3A, f. 165). 1576: “l’olivito fo di Jacobello di amino sotto le timpe dela grecia jux.a la Costa di merto di paulo archimanno jux.a lo vig(na)le di detto paulo, lo vallone di merto jux.a la via pu.ca che cala di portanova à merto et l’olivito di paulo archimanno rend. Car.i tre et octo gr(ana) lo possede jo : dom.co fiasco d. 0.1.18” (AASS, 13B, f. 42v). 1582: “Joan Dominco fiasco p(er) loliveto sotto le Timpe d. 0.1.18”. (AASS. 3A, f. 123v).

[lxvi] 1548: “Thaviano cirigiorgi p(er) uno olivito d. 0.04” (AASS, 3A, f. 72). 1550: “Taviano cirigiorgi p(er) uno olivito d. 0.04” (AASS, 3A, f. 99). 1555-58: “Donno Nicola arcomanno (…) Et p(er) uno holivito fo de taviano cirigiorgi paga lo anno grana quattro” (AASS, 4A, f. 46v). 1564-65: “Paulo archimanno (…) et per uno olivito fu di taviano cirigeorgio pagha l’anno gr(ana) quatt.o d. 0.0.4” (AASS, 5A, f.57v). 1564: “Paulo arcomanno (…) Et p(er) uno olivito fo ottaviano cirigiorgio d. 0.0.4” (AASS, 3A ff. 187-187v). 1568: “Paulo archimanno (…) Et più p(er) uno olivito fò di Taviano cirigeorgio paga l’anno gr(ana) Nove d. 0.0.9” (AASS, 3A, f. 160). 1576: “Paulo archimanno (…) p(er) lo oliveto fo di taviano gr(ana) quattro d. 0.0.4 (…) per l’olivito dele Canne gr(ana) Cinque d. 0.0.5” (AASS, 13B, f. 35). 1582: “Giroromo arcomanno (…) p(er) lo loco di Taviano d. 0.0.4 (…) p(er) lo liveto dele Canne d. 0.0.5” (AASS, 3A, f. 121).

[lxvii] 1548: “L’aereda de alfonso de sara p(er) uno olivito ad merto d. 0.0.5” (AASS, 3A, f. 73v). 1550: “Laereda de alfonso de Sara p(er) uno olivito ad merto d. 0.0.5” (AASS, 3A, f. 100). 1555-58: “Lereda de alfonso de sara p(er) uno olivito ad merto paga lo anno grana cinque” (AASS, 4A, f. 59v). 1564: “Paulo de Sara p(er) uno holivito ad merto d. 0.0.5” (AASS, 3A f. 192). 1564-65: “Paulo de sara. Per uno olivito a mertò confine l’olivito di marco ant.o basoino, pagha l’anno gr(ana) cinque” (AASS, 5A, f. 75v). 1568: “Paulo de sara per uno oliveto à merto paga lo anno d. 0.0.5” (AASS, 3A, f. 168v). 1576: “uno olivetello a merto jux.a l’olivito di marcant.o basoino à parte sup.re jux.a la via pu.ca à parte inferiori jux.a la traza et altri confini rend. gr(ana) Cinque lo possede paulo de sara d. 0.0.5” (AASS, 13B, f. 47). 1582: “Paulo de sara p(er) loliveto d. 0.0.5” (AASS, 3A, f. 126).

[lxviii] 1576: “uno loco q(ua)le fo di jo : dila fico a merto iux.a lo olivito di jo : pet.o de fulco et di jo : ferrante novellise rend. gr(ana) vinti sette e mezo lo possede loisio pavia d. 0.1.7 ½” (AASS, 13B, f. 42v).

[lxix] 1548: “M(esser) Joanfrancissco miniscalco (…) Et p(er) li vignali ad merto d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 72v). 1550: “M(esser) Joanfra.co miniscalco (…) Et p(er) li vignali ad merto d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 99). 1564: “Lareda de M(esser) Janfrancisco miniscalco (…) Et p(er) li vignali ad merto d. 0.0.10” (AASS, 3A f. 191v). 1564-65: “Cola pavia (…) et per l’olivito fu di l’her.a di meniscalco pagha l’anno gr(ana) dece d. 0.0.10” (AASS, 5A, f. 68v). 1568: “Cola pavia (…) et più per uno oliveto seu costa fo deli miniscalchi paga lo anno d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 166).

[lxx] 1576: “uno loco seu poss(essio)ne con t(er)re vacue, vigne olivi et altri albori sotto porta nova jux.a lo giardino de s.to Dominico jux.a lo vallone di Cafiri jux.a la via pu.ca dele Carra vecchia jux.a lo vig(na)le seu olivetello de pet.o Cosentino et alios fines rend. Anno q.olibet grana vinti doi et mezo lo possede il m.co jo : bartolo liverio p(procurato)re del’heredi di la q.o m.ca lucretia de dato d. 0.1.2 ½” (AASS, 13B, f. 30v). 1582: “Gio : Bartolo oliveri p(er) una posess.ne sotto portanova d. 0.1.2 ½” (AASS, 3A, f. 119).

[lxxi] 1548: “M(esser) Petro Consentino (…) Et p(er) le vigne sucto portanova d. 0.2.10” (AASS, 3A, f. 64v). 1550: “M(esser) Petro Consentino (…) Et p(er) le vigne sucto portanova d. 0.2.10” (AASS, 3A, f. 92v). 1555-58: “lo s.or trisaureri p(er) le vingne sotta portanova foro de M(esser) petro cosentino paga lo anno carlini Cinque” (AASS, 4A, f. 65v). 1564: “M(esser) petro Cosentino (…) Et p(er) li vignali sotta portanova d. 0.2.10” (AASS, 3A f. 184v). 1564-65: “Petro Cosentino, Per uno loco socto portanova pagha l’anno un tari et Cinque gr(ana) d. 0.1.5” (AASS, 5A, f. 48v). 1564-65: “M(esser) Jo : Ant.o Infosino (…) Et più pagha l’anno Per l’her.a de m(esser) cola cosentino sua moglie, Per lo loco sotto portanova per la metà sua tari uno et gr(ana) Cinque d. 0.1.5” (AASS 5A, f. 79v). 1568: “m(esser) Petro cosentino (…) Et più per uno loco sotto portanova, rende l’anno Cinque car.ni d. 0.2.10” (AASS, 3A, f. 149). 1576: “Item uno vignale con olive sotto portanova jux.a la poss(essio)ne de m(esser) jo : bar.lo liveri et figli jux.a la via pu.ca che và alle Carra vecchia jux.a la poss(essio)ne de s.to D(ome)n(i)co rend. Carlini Cinque lo possede pet.o Cosentino d. 0.2.10” (AASS, 13B, f. 31v). 1582: “D. Gioanni Cosentino p(er) lo loco sotta portanova d. 0.2.10” (AASS, 3A, f. 119).

[lxxii] 1548: “Marino milea p(er) uno loco ad le carra veche d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 63v). 1550: “Marino milea p(er) uno loco ad le carra d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 91v). 1555-58: “Donno janperi franse (…) Et p(er) l’aulivito fo de marino malea paga lo anno grana tre” (AASS, 4A, f. 30v). 1564: “Donna viatrice de melea p(er) lo uno olivito alla cona d. 0.0.3” (AASS, 3A f. 185). 1564-65: “D. Beatrice de milea Per uno olivito alla Cona socto porta nova pagha l’anno g(rana) 3” (AASS, 5A, f. 51v). 1568: “Diacono Ant.no milea Per uno loco fo di D. perri franzè paga l’anno gr(ana) Tre d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 154v). 1576: “Item uno loco posto alla Cona de Cocina jux.a l’oliveto del m.co pet.o Ant.o del sin.co la via pu.ca rend. gr(ana) tre lo possede Ant.no milea d. 0.0.3” (AASS, 13B, f. 24). 1582: “Ant.no milea p(er) lo loco d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 117).

[lxxiii] 1548: “M(esser) girolimo de lo sindico (…) Et p(er) lo loco fo de catania d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 52v). 1550: “M(esser) girolimo de lo sindico (…) Et p(er) lo loco fo de catania d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 83v). 1555-58: “Lereda de M(esser) girormo de lo sindico (…) Et p(er) uno loco fo de catania paga lo anno carlini dui” (AASS, 4A, f. 2v). 1564: “Lereda de m(esser) girormo delo sindico (…) Et p(er) uno loco fo de catania d. 0.1.0” (AASS, 3A f. 173v). 1564-65: “M(esser) Petro ant.o del sin.co, per uno loco fù di Catania, confine lo giar.o de l’her.a di m(esser) jo : fran.co sacco pagha l’anno un tari” (AASS, 5A, f. 5v). 1576: “Item uno oliveto posto nel p.to Terr.o loco detto la Cona jux.a l’olivito del m.co jo : m.a novellise jux.a l’olivito di Ant.no milea jux.a la via pu.ca de doi parte lo possede lo m.co pet.o Ant.o del sindico rend. anno quolibet doi Carlini d. 0.1.0” (AASS, 13B, f. 10v). 1576: “Item uno loco quale fo de Catania posto al p.to terr.o jux.a l’olivito del m.co pet.o Ant.o del sin.co jux.a l’olivito di m(esser) jo : m.a novellise jux.a la Cona et la via pu.ca lo possede detto m.co pet.o Ant.o del sin.co rend. anno quolibet Uno Tari (…) d. 0.1.0” (AASS, 13B, f. 10v). 1582: “Petrant.o del sin.co (…) p(er) loliveto de la Cona d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 111v).

[lxxiv] 1576: “Item Uno vignale posto avante s.to Nicola de Cocina jux.a le vigne del m.co jo : m.a novellise jux.a l’olivito di jo : bar.lo Sacco q(ua)le fo de ambrosio lauria, jux.a la via che va alle poss(essio)ni di Cocina di detto jo : bar.lo rend. anno quolibet uno Tari lo possede il m.co jo : maria novellise (…) d. 0.1.0” (AASS, 13B, f. 22). 1576: “Et p(er) lo loco q(ua)le fo de pet.o Cola Caloianni posto ad san Nic.a de Cocina jux.a lo livito de m(esser) jo : m.a novellise la via pu.ca et la poss(essio)ne di Cocina di detta m.ca tarsia rend. gr(ana) Cinque lo possede pietro pistoia d. 0.0.5” a margine “Tarsia Martino” (AASS, 13B, f. 30v).

[lxxv] 1548: “Laereda de m(esser) joanmacteo sicoranza p(er) lo iardino ad cocina d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 52). 1550: “Lareda del q.dam m(esser) joanmacteo sicoranza p(er) lo iardino ad cocina d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 83). 1555-58: “Donno gori de le pira p(er) lo giardino fo de M(esser) janmatteo Sicoransa paga lo anno carlini tre” (AASS, 4A, f. 29v). 1564: “Donno gregori de le pira (…) Et p(er) lo giardino fo de M(esser) matteo Sicoransa d. 0.1.10” (AASS, 3A f. 82v). 1564-65: “D. Gori de le pira (…) et p(er) uno giardino a Cocina, confine l’olivito del’her.a de jo : fran.co sacco pagha l’anno tari uno et gr(ana) dece d. 0.1.10” (AASS, 5A, f. 40v). 1568: “Don Gregorio dele pira (…) Et piu per lo giardino fo di joan Matheo sicuranza à cocina paga lo anno d. 0.1.10”  (AASS 3A, f. 147v). 1576: “Item p(er) lo loco seu olivito di Cocina jux.a l’olivito di donno Mar.no la mendula jux.a l’olivito de jo : bar.lo sacco et pet.o dele pira rend. l’anno carlini tre lo possede detto donno Gorio d. 0.1.10” (AASS, 13B, f. 31v). 1582: “D. Gori le pira (…) p(er) lo loco di Cocina d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 119v).

[lxxvi] “A di 6 di giugno 1586 io gio : fran.co ralles come p(ro)curator del s.mo sacram.to fui misso in possessione dell’oliveto del R.do q.o don martino la mendula che n’haveva fatto donatione à detta cappella” (AASS, 1D fasc. 3).

[lxxvii] 1576: “Item p(er) la Vigna fo di bap.ta condopoli confine le vigne de lucant.o lo moio, lo loco de m.o alfonso novellise alle Carra, et jux.a la via pu.ca và a s.to Nic.a et jux.a l’olivito di detto ant.o rend. car. doi l’anno la possede il p.to antonio zurlo d. 0.1.0” a margine: “li tene pet.o pistoia” (AASS, 13B, f. 21v). 1576: “Petro pistoia (…) et p(er) la vigna et olivito foro di batt.a condopoli et pet.o Cola caloiani alle Carra jux.a l’olivito et poss.e di lucant.o modio paga annuatim car. tre d. 0.1.10” (AASS, 13B, f. 23v). 1576: “Item una vigna alle Carra vecchia jux.a la via pu.ca alla serra p(er) deritto la pos(sessio)ne di m(esser) lucant.o modio rend. Anno q.olibet uno Tari, la possede detto m(esser) lucant.o d. 0.1.0. Item p(er) uno loco intro la p.ta pos(sessio)ne de le Carra loco detto le mortille rend. gr(ana) tre lo possede detto m(esser) lucant.o modio d. 0.0.3. Et p(er) lo loco fo di fran.co di meglio jux.a la p.ta pos(sessio)ne jux.a lo olivito di m.o alfonzo novellise et altri confini rend. gr(ana) quindici lo possede detto m(esser) lucant.o modio d. 0.0.15” (AASS, 13B, f. 25v).

[lxxviii] 1548: “M(esser) Joannello Susanna (…) et p(er) lo olivito et costa fo di cola ferraro d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 61). 1550: “M(esser) Joannello susanna (…) Et p(er) lo olivito et costa fo di cola ferraro d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 90). 1555-58: “Lerede de M(esser) Jannello Susanna (…) Et p(er) lo holivito et costa fo de cola ferraro paga lo anno grana dece” (AASS, 4A, f. 25v). 1564: “Lereda de M(esser) Joannello sosana (…) Et p(er) lo olivito et costa fo de Cola ferraro d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 181v). 1564-65: “L’her.a di m(esser) joannello susanna (…) et per l’olivito et Costa fu di Cola ferr.ro d. 0.0.10” (AASS, 5A, f. 35v). 1568: “La her.a del q.dam joanello susanna (…) Et più per lo oliveto et costa fo di cola ferraro paga lo anno d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 146). 1576: “Item uno olivetello fo di Cola ferraro con la Costa posti a Cafiri rend. Uno Carlino lo possede detto m.co Carlo susanna d. 0.0.10” (AASS, 13B, f. 79). 1582: “Carlo susanna (…) p(er) loliveto fo di cola ferraro d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 118v).

[lxxix] 1548: “Laereda de lancello vacharo p(er) uno olivito d. 0.0 7 ½”(AASS, 3A, f. 61v). 1550: “Laereda de lancello vacharo p(er) uno olivito d. 0.0 7 ½”(AASS, 3A, f. 90v). 1564: “Lereda de lansello vaccaro p(er) uno holivito Confine li Infosini d. 0.0 7 ½”(AASS, 3A, f. 182). 1564-65: “L’her.a di lancello vaccaro, Per uno olivito confine l’olivito di ber.do Infosino pagha l’anno gr(ana) secte et meczo d. 0.0.7 ½” a margine: “sta per l’Ecc.a” (AASS, 5A,  f. 37v). 1568: “La her.a di lancello baccaro per uno oliveto confine alli infosini di abascio paga lo anno d. 0.0.7 ½” (AASS, 3A, f. 146).

[lxxx] 1576: “uno loco sopra lo Canale della Città jux.a le vigne delo m.co Fran.co baglione le Coste seu olivito dela m.ca Isabella susanna et lo p.to Canale et altri Confini” (AASS, 13B, f. 8). 1576: “Item uno loco sotto lo timpone di linpise jux.a lo liveto di mad. Isabella susanna jux.a le t(er)re de m.co jo : fra.co rales et di m(esser) Nise palermo” (AASS, 13B, f. 26). 1576: “Item uno squiglio allo Timpone di li Impisi confine l’oliveto di mad. sabella susanna, et la poss(essio)ne di jo : ant.o infosino via m.te et la via pu.ca” (AASS, 13B, f. 60v).

[lxxxi] “… allo pendino di molinello seu dell’Impisi.” (AASS, 109A, f. 260v).

[lxxxii] 1548: “M(esser) girolimo delo sindico p(er) la possessione fo de ganbaraza d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 52v). 1550: M(esser) girolimo de lo sindico p(er) la possessione fo de ganbaraza d. 0.1.0” (AASS, 3A, f.  83v). 1555-58: “Lereda de M(esser) girormo de lo sindico p(er) la possessione fo de ganbarazapaga lo anno carlini dui” (AASS, 4A, f. 2v). 1564: “Lereda de M(esser) girormo de losindico per la possessione fo de ganbbaracza d. 0.1.0” (AASS, 3A f. 173v). 1564-65: “M(esser) jo : vicenzo del sin.co Per una possessione fù de gambaracza alli Cati, pagha ogni anno un tari d. 0.1.0” (AASS, 5A, f. 45v). 1568: “m(esser) jo : ber.no santoro per una possessione fo de m(esser) jo : vicenzo delo sindico seu ganbaracza confine la her.a di Notar matheo cirigiorgio paga d. 0.1.0” (AASS, 3A f. 149). 1576: “Et p(er) lo loco seu olivitello à molinello q(ua)le fo de jo : ber.no San.ro jux.a lo molino et poss(essio)ne di madamma elisabetta Cirigiorgio jux.a lo giardino di mad. Adriana Sacco et lo vallone de molinello rend. uno tari l’anno lo possede detto Indino d. 0.1.0”. (AASS, 13B, f. 48v). 1576: “Item uno pezo di Terre poste à molinello jux.a lo giardino di m(esser) jo : ber.no sacco jux.a l’olivitello di indino amino et la via che va ad armirò lo possede semone riso” (AASS, 13B, f. 12v). 1576: “Uno molino posto nel terr.o di s(an)ta s(everi)na loco detto lo palazo di molinello, con li vignali di questa parte lo vallone jux.a lo giardino di Pomponio Criscente, jux.a lo molino delo deno jux.a la via che và al ponticello et lo vallone de molinello, et Confine lo olivetello de Indino di aminò l’acq.ro m.te lo possede la m.ca Elisabetta de Cirigiorgio” (AASS, 13B, f. 10). 1576: “Item uno giardino posto al p.to terr.o loco detto ponticello jux.a lo p.to molino jux.a la via delo ponticello, jux.a le T(er)re de s.to jo : bap.ta jux.a le vigne di donno salvat.re ficuso jux.a la via pu.ca che và ad armiro, et jux.a l’olivetello de indino de aminò lo possede la p.ta m.ca elisabetta Cirigiorgio” (AASS, 13B, f. 10). 1576: “Item uno giardino in loco detto le Cati, con li vignali jux.a lo giardino di m(esser) Marcant.o infosino jux.a lo giardino del s(ignor) Carlo Susanna via pu.ca m.te jux.a le T(er)re de lo molinello delo deni infosino lo vallone m.te jux.a l’oliveto di indino aminò jux.a la via che vene di armirò et altri confini (…) lo possede la mag.ca Andriana infosina” (AASS, 13B, f. 26v). 1582: “Indino de ammino (…) p(er) loliveto ammolinello d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 126v).

[lxxxiii] 1548: “Notari macteo cirigiorgi (…) et p(er) uno loco fo de cola di girardo d. 0.0.18 (…) et p(er) lo loco sucto guctuneri d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 60). 1550: “Notari macteo cirigiorgi (…) et p(er) uno loco fo de cola de girardo d. 0.0.18 (…) et p(er) lo loco sucto guctuneri d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 89). 1564: “lehreda de notari matte girigiorgi (…) Et p(er) uno loco fo de Cola de yirardo d. 0.0.18 (…) Madamma dianora Cirigiorgi p(er) li celsi ad guttoneri d. 0.1.0” (AASS, 3A f. 180v). 1564-65: “L’her.a di Notar Mattheo Cirigeorgio videlicet Madamma Helisabetta sua figlia (…) et per uno vignale fù di cola di ger.do d. 0.0.18 (AASS 5A, f. 32v). 1568: “la her.a di Notar Matheo cirigiorgi Gio : hier.mo cirigiorgio (…) et più per loco fo di cola di girardo paga lo anno d. 0.0.18” (AASS, 3A, f. 147v). 1576: “Item uno olivito posto nel p.to terr.o loco detto s.to fantino jux.a l’olivito di Minico ficuso juxa la via delimpisi jux.a la Costa del m.co Marcant.o Infosino, jux.a lo vallone di guttoneri et altri confini lo possede detta m.ca elisabetta Cirigiorgio rend. Car. tre et gr(ana) octo (…) d 0.1.18” (AASS, 13B f. 10). 1582: “M. lisabetta Cirigiorgio (…) p(er) loliveto a san fantino d. 0.1.18” (AASS, 3A, f. 111).

[lxxxiv] 1548: “M(esser) luca ioanni infosino (…) Et p(er) lo loco ad s.to infantino d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 54). 1550: “M(esser) luca joanni infosino (…) Et p(er) lo loco ad s.to infantino d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 84v). 1555-58: “Lerede M(esser) luca gioanni Infosino (…) et p(er) uno loco ad s.to fantino paga lo anno grana tre” (AASS, 4A, f. 5v). 1564: “M(esser) Marcantoni Infosino (…) Et p(er) uno loco ad s.to fantino d. 0.0.3” (AASS, 3A f. 174v). 1564-65: “M(esser) Marco Ant.o Infosino (…) et per lo loco a san fantino confine s.ta d(omi)nica pagha l’anno gr(ana) Tre d. 0.0.3” (AASS, 5A, f. 8v). 1576: “Item uno loco posto a s.to fantino jux.a la via pu.ca sotto santo Vito jux.a l’olivito di Madamma elisabetta de cirigiorgio jux.a lo Cavone et T(er)re del R.o fra.co modio archidiac.o et altri confini lo possede lo p.to m.co Marcant.o infos.o rend. anno quolibet grana tre d. 0.0.3” (AASS, 13B f. 15). 1582: “Marcant.o Infosino (…) p(er) lo liveto a san fantino d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 113).

[lxxxv] 1564-65: L’erede di D. Paschale Germano possiede una vigna “sop.a la fontana e prop.e vicino all’irto di la favata” (AASS, 5A, f. 21v). 1576: La chiusa di vigne di Pietro Lampusa “in la Fontana alla Favata”, confinava con la via pubblica da due parti “et le Timpa delo Castello” (AASS 13B, f. 24v). Nel settembre del 1620 è appiccato il fuoco all’oliveto di Bartolo Carnevale ed a quello vicino del clerico Antonio Galazzita di Santa Severina. Allo stesso Antonio Galazzita erano stati tagliati spiantati e rubati, alberi fruttiferi tanto nelle vigne di Mangianoce “quanto della favata sopra la fontana” (AASS 3D fasc. 1).

[lxxxvi] 1548: “M(esser) Disidio de oliveri (…) Et p(er) lo olivito fo de mastro ferrante condopoli d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 54). 1550: “M(esser) disidio de oliverio(…) Et p(er) lo olivito fo di mastro ferrante condopoli d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 84v). 1555-58: “M(esser) tesidio holiveri (…) Et p(er) uno holivito fo de M.o farrante condopulo paga lo anno carlini tre (…) Et per uno loco alla fontana paga lo anno grana dudici et mezo. Et per uno Scinetto ibbidem (ndr “alla fontana”) paga lo anno grana tre” (AASS, 4A, f. 5v). 1564: “M(esser) Tesidio de oliveri (…) Et p(er) uno loco alla fontana fo de antoni pancali d. 0.0.12 ½. Et p(er) uno Scinetto ibidem (ndr “alla fontana”) d. 0.0.3. (…) Et p(er) lo olivito fo de M(esser) ferrante condopolo d. 0.1.10.” al margine: “tene M(esser) tesidio” (AASS, 3A 174v). 1564-65: “M(esser) Theosidio di oliverio (…) et per l’olivito seu loco alla fontana fù di ant.o pancalli pagha ogni anno gr(ana) dudici d. 0.0.12. (…) et per l’olivito fù di m.o ferr.te condopulo alla fontana pagha ogni anno Tre car.ni d. 0.1.10” (AASS, 5A, f. 7v). 1576: “Item una Continentia di Vigne con terre intorno con olive poste al ter.o p.to loco detto sop.a la fontana jux.a la poss(essio)ne et olivito di Tesidio liveri A parte superiori jux.a l’olivetello di Ant.o vaccaro la via pu.ca che va alla fontana, et la via che và a s.ta m.a la neve la possede al p(rese)nte Antonino Califari rend. anno quolibet gr(ana) deceocto d. 0.0.18” (AASS, 13B, f. 8). 1576: “tesidio liveri (…) p(er) lo olivito et vigne sopra la fontana car(lini) quattro et grana octo d. 0.2.8”, a margine : “M. Ant.o Guercio” (AASS, 13B, f. 11). 1582: “Le her.a de Tusidio oliveri (…) p(er) lo liveto et vigna alla fontana d. 0.2.8” (AASS, 3A, f. 112).

[lxxxvii] 1576: “Item uno pezo di T(er)re alle Coste dela fontana confine le T(er)re de s.to Matteo la Trazza deli Miniscalchi et confine lo olivito de laur.o modio” (AASS, 13B, f. 57v).

[lxxxviii] 1548: “Mastro Petro Carcello (…) Et p(er) uno olivito sucto s.ta m.a dela nive d. 0.0.7 ½” (AASS, 3A, f. 57v). 1550: “Mastro petro scarcello (…) Et p(er) uno olivito ad s.ta m.a de la nive d. 0.0.7 ½” (AASS, 3A, f. 87v). 1555-58: “Mastro petro carcello (…) Et p(er) uno olivito ad s.ta m.a lanive paga lo anno grana sette” (AASS, 4A, f. 63v). 1564: “Lereda de M.o petro Carcello (…) Et p(er) uno olivito ad s.ta maria dela nive d. 0.0.7 ½” (AASS, 3A, f. 173). 1564-65: “Et più dett’her.a petri carcelli Per uno olivito a s(an)ta m.a de la Nive pagha l’anno g(rana) 7 ½” (AASS, 5A, f. 3v). 1576: “Item uno olivito posto a s.ta m.a la Neve jux.a la ecc.a de s(an)ta m.a la neve jux.a la via pu.ca et Altri confini lo possede detto julio de le Castella rend. Anno q.olibet gr(ana) sette d. 0.0.7” (AASS, 13B, f. 9v). 1582: “Giulio de le Castella (…) p(er) lauliveto a s.ta maria la nive d. 0.0.7 ½” (AASS, 3A, f. 111).

[lxxxix] 1555-58: “M.o giorgi Labate (…) Et p(er) uno sinetto ad s.to giorgi paga lo anno grana tre” (AASS, 4A, f. 57v). 1564: “M.o Giorgi labate (…) Et p(er) uno olivito ad s.to giorgi d. 0.0.3” (AASS, 3A f. 190v). 1564-65: “M.ro georgio di L’abbate Per uno olivito à s.to yoryi vicino le sciolle pagha l’anno gr(ana) 3” (AASS, 5A, f. 65v). 1568: “Mastro Giorgio delapate per uno loco alle puzelle paga lo anno d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 165v). 1576: “uno olivito alle pocelle jux.a l’olivito dili miniscalchi jux.a l’olivito di l’her.a di silvestro martino lavinaro m.te et la via pu.ca a parte superiori rende gr(ana) tre lo possede m.o giorgio labbate d. 0.0.3” (AASS, 13B, f. 44v). 1582: “Gio : Andria Labate p(er) loliveto d. 0.0.3” (AASS, 3A, f. 125).

[xc] 1548: “M(esser) Joanfrancissco miniscalco (…) et p(er) la possesione ad le pocelle d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 72v). 1550: “M(esser) Joanfra.co miniscalco (…) Et p(er) la possesione ad le pocelle d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 99). 1564: “Lareda de M(esser) Janfrancisco miniscalco (…) Et p(er) la possesione alle pocelle d. 0.1.10” (AASS, 3A f. 191v). 1564-65: “L’her.a de m(esser) jo: fran.co meniscalco (…) et per la possess.e alle pucelle d. 0.1.10” (AASS, 5A, f. 64v). 1568: “La her.a di Gio : Fran.co miniscalco (…) Et p(er) la possessione alle puczelle seu oliveto paga lo anno d. 0.1.10” (AASS, 3A, f. 165). 1576: “uno olivito posto alle pocelle jux.a l’olivito di pet.o Ant.o Infosino et l’olivito di silvestro de mart.no rend. l’anno carlini tre ne pagha p(er) la 3.a parte m(esser) Laur.o lomoio un Car.o d. 0.0.10. Item p(er) l’altra 3.a parte di detto olivito lo pagha et possede donna Covella miniscalco un Car.o d. 0.0.10. Et p(er) l’altra terza parte restante di detto olivito q(ua)le possede m(esser) Federico Sacco ne pagha un altro Car.o d. 0.0.10” (AASS, 13B, f. 42). 1582: “Federico sacco p(er) dui parti de loliveto alle pucelle d. 0.1.0” (AASS, 3A, f. 123v). 1582: “Her.a de Laurentio lomoyo p(er) la terza Parte de loliveto alle pucelle d. 0.0.10” (AASS, 3A, f. 123v).

[xci] 1548: “M(esser) Silivestro de martino p(er) le vigne foro de guliermo caputo d. 0.1.5” (AASS, 3A, f. 68). 1550: “M(esser) Silivestro de martino p(er) le vigne foro de guliermo caputo d. 0.1.5” (AASS, 3A, f. 95). 1555-58: “M(esser) Suli vestro de martino p(er) le vigne foro de guliermo Caputo paga lo anno grana vinti cinque” (AASS, 4A, f. 44v). 1564: “M(esser) Sulivestro de martino p(er) le vigne foro de guliermo Caputo d. 0.1.5” (AASS, 3A f. 187). 1564-65: “m(esser) sylvestro di martino, per le vigne foro di gugl(iel)mo caputo paga l’anno tari uno et gr(ana) cinque d. 0.1.5” (AASS, 5A, f. 50v). 1568: “M(esser) Sylvestro de martino (…) Et per li vignali, seu olivito à s.to georgio paga l’anno gr(ana) vinti cinque d. 0.1.5” (AASS, 3A, f. 155). 1576: “uno olivito et vig(na)le a s.to Giorgio jux.a la via pu.ca jux.a lo olivito di pet.o Ant.o infosino jux.a l’olivito di l’her.a di fran.co miniscalco et lo Cavone sicagno jux.a l’olivito di m.o giorgio labbate rend. gr(ana) Vinti Cinque l’anno lo possede Gasparre de mart.no fig.o di silvest.o d. 0.1.5” (AASS, 13B, f. 38v). 1582: “Her.a de silvest.o de mar.no p(er) loliveto alle Pucelle d. 0.1.5” (AASS, 3A, f. 122v).

[xcii] AASS 1A, f. 14.

[xciii] Negli anni 1564-65, Jo : Cola Habinabile possedeva una casa appartenuta a Vincilao Susanna, che confinava con “la casa del trappito de m(esser) marco ant.o infosino” (AASS 5A, f. 9v). Nel 1576, Luca Cirimele possedeva una casa terranea con una grotta sottostante in parrocchia di S.to Nicola dei Greci, confinante con “lo Trappito del M.co Marcant.o infosino”, la casa di Gio : Cola Abinabile e la via pubblica (AASS, 13B, f. 14).

[xciv] “D. Gio : Ant.o Tilese nel suo ult.o testam.to lasciò sopra lo trappito litre due d’oglio q(uando) macina al S.mo Sacr.to” (AASS, 1D fasc. 3, f. 95).

[xcv] “Vitt.a Infosino per la metà del tappeto d. 0.2.10. Antonio Ben’incasa (…) Per la metà del trappeto d. 0.2.10” (AASS, 022A f. 157).

[xcvi] “Lelio Teut.co (…) Uno trappeto d. 1.0.0” (AASS, 022A f. 159).

[xcvii] “Marc’Ant.o Zurlo (…) Uno Trappeto d’olive d. 1.0.0” (AASS, 022A f. 164).

[xcviii] AASS, 031A, f. 14.

[xcix] Siberene, p. 142.

[c] ASN, Regia Camera della Sommaria Patrimonio Catasti onciari, busta 7009.

[ci] ASN, catasto cit., f. 104.

[cii] ibidem, f. 139. Il 24.05.1692, la mag.ca Laura Benincasa vedova del q.m Paolo Juliano, aveva donato al cl.co Mauritio Juliano suo figlio, alcuni beni tra cui “una Casa Matta dentro questa Città nel luogo detto la Piazza col Trappeto dentro iuxta li suoi fini”. AASS, protocollo notaio Ceraldi 1692, 007D fasc. 3, ff. 23v-25.

[ciii] ibidem, f. 145.

[civ] ASN, Regia Camera della Sommaria Patrimonio Catasti onciari, busta 7009.

[cv] Ibidem, f. 5.

[cvi] Ibidem f. 8.

[cvii] Ibidem, f. 12.

[cviii] Ibidem, f. 19.

[cix] ASN, Regia Camera della Sommaria Patrimonio Catasti onciari, busta 6328.

[cx] ASN, catasto cit., f. 125v. Pietro Incola bracciale del casale della Cuturella di anni 25, possedeva una casa locanda del Sig. Dom.co Jazzolino “e proprio dove è il trapeto”, confine la casa del Sig. Bruno Jazzolino (ibidem, f. 331).

[cxi] Gregorio Scalise cavallaro nella Marina di Belcastro di anni 24, abitava in una casa propria nel loco detto “lo burgo” confine “il Trappeto della Menza Vescovile” (ibidem f. 228). Isabella Rotella di anni 40 vedova del quondam Gio : Tomaso Mosca, possedeva una casa locanda loco detto “il Burgo”, confine “il trapeto della Mensa Vescovile” (ibidem, f. 423).

[cxii] Cosentino A., cit., pp. 137-138.

[cxiii] Spizzirri M., Rocca di Neto nel Catasto del 1742, 1995.

[cxiv] AVC, Catasto e tassa de’ Cittad.i, Forastieri, Ecclesiastici, Luoghi Pii, Bonaten.ti & c., secondo l’Istruzzioni stampate dall’Unciario Formato dalla Regia Camera per il corrente Anno, cominciato à primo Sett.e 1746, e terminato all’ultima Agosto 1747 di questa Città dell’Isola, s.c.; Libro del Catasto annuale dell’Università di quasta Città d’Isola (…) pell’annata principiata a Sett.e 1768 e terminanda in Agosto 1769, s.c.; Catasto Onciario di Isola anno 1800, s.c..

[cxv] 23.09.1636. Isabella e Berardina Faraco di Policastro figlie del quondam Lutio, assieme a Faustina Coria, vendono a Martino Vecchio di Policastro, un ortale arborato posto “intus p(redi)ttam Civitatem ubi dicitur lo castello”, “in Convicinio Ecc.e dirute Santi Angeli lo melillo”, confine il “trappitum” del presbitero Joannes Andrea Alemanno, le “ripas della difesa muro Conjuntum dittum lo castellum”, la via pubblica ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 303 ff. 126v-127v e ff. 127v-128).

06.08.1643. Nel suo testamento, Martino Vecchio istituiva suoi eredi il Cl.co Alessandro e Fausto Vecchio suoi figli. Al detto Fausto, tra l’altro, lasciava: “l’horto nel loco dove si dice il castello”, confine “lo trappito” del R. D. Gio : Andrea Alemanno, “le ripe della difesa”, la via pubblica, ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 307 ff. 036-037v).

17.03.1645. Martino Vecchio avendo ricevuto un prestito dal Pio Monte dei Morti eretto dentro la chiesa parrocchiale di S.to Nicola “Grecorum”, lo garantiva con i suoi beni, tra cui l’ortale arborato posto dentro la terra di Policastro “in loco vulgo dicto lo Castello”, confine il “Tapetum” del Rev. D. Jo : Andrea Alemanno, le “Rupas dictae Civitatis” ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 804, ff. 038v-043v).

[cxvi] 01.12.1607.  Davanti al notaro si costituiscono Ottavio Mannarino di Policastro e Joannes Thoma Curto di Policastro per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra il detto Joannes Thoma e Nucentia Mannarino figlia di detto Ottavio. In questa occasione, D. Scipione Curto donava a suo figlio Joannes Thoma un “trappito di oglio” con tutti gli “stigli spettanti a detto trappito”. Donazione che avrebbe avuto effetto dopo la sua morte. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287 ff. 048-050).

11.09.1627. Nei mesi passati, dietro istanza dello U.J.D. Vespesiano o Spetiano Cosentino di Policastro, era stata fatta esecuzione contro Joannes Thoma Curto di alcuni beni, tra cui: la domus palaziata “con stalla, et trappito contigua”, posta dentro la terra di Policastro, nel convicino della SS.ma Annunziata “nova” ed un’altra domus palaziata dove al presente abitava detto Joanne Thoma posta nello stesso luogo, confine la domus di Marcello Lice, la domus di Polita Vennarello e la via pubblica da due lati. Esecuzione che era stata fatta in relazione ai debiti nei confronti del quondam Hijeronimo Cosentino. Al presente detto U.J.D. Vespesianus vendeva detti beni al presbitero D. Joanne Paulo Mannarino di Policastro. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 145-146v).

28.09.1630. Davanti al notaro comparivano Joanne Dom.co Mannarino di Policastro ed Innocentia Mannarino di Policastro vedova del quondam Joannes Thoma Curto. Interveniva nell’atto anche D. Joanne Paulo Mannarino. Al tempo in cui viveva il detto quondam Joannes Thoma Curto, dietro l’istanza degli eredi del quondam Gio : Gerolimo Cosentino, gli era stata fatta esecuzione dei seguenti beni per ducati 140: un pezzo di terra arborato di “celsi” loco “lo ringo”, una casa palaziata “con trappito di macinare oglio di sotto” ed un’altra “Casetta matta seu terrana”. Esecuzione che detto quondam Joannes Thoma Curto “si ricatto delle mano” degli eredi del detto quondam Gio : Gerolimo Cosentino con il suo proprio denaro, restituendo le terre arborate di “Celsi” alla detta Innocentia per ragione di dote come per atto del 04.09.1629. Al presente, detta Innocentia “essendo Carica, et gravata di cinque figlioli tutti minori e considerata “questa annata Cossi penuriosa di grani” non avendo altro sostentamento, vendeva le dette terre a Joanne Dom.co Mannarino per ducati 40. Le dette terre e “Celsi” erano redditizie per annui ducati 2 “in emfiteosim” alla Cappella del SS.mo Sacramento. Il detto Gio : Dom.co pagava così ducati 33 “in grani bianchi, et germani”, mentre per gli altri ducati 7, s’impegnava a versarli agli eredi del q.m Gio : Dom.co Marchese, per il censo di carlini 36 che detta Innocentia pagava sopra la casa che abitava, confine al “palazzotto, et trappito” di detto D. Gio : Paulo Mannarino e dall’altra parte, confine la casa terranea di D. Gio : Battista Favaro. A questo punto, il detto D. Gio : Paulo Mannarino “patrone del detto palazzetto, trappito et casetta”, li vendeva a detta Innocentia per il prezzo di ducati 70, che s’impegnava a pagare l’annuo censo di carlini 42 alla ragione del 7 %. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 167v-168v).

01.04.1634. Davanti al notaro comparivano Innocentia Mannarino vedova del quondam Joannes Thoma Curto ed il Cl.o Fran.co Curto suo figlio, entrambi di Policastro mentre, dall’altra parte compariva Scipione Spinello di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Scipione e Lisabetta Curto figlia di detta Innocentia e sorella del detto Cl.o Fran.co. Appartenevano alla dote della sposa: la casa palaziata posta dentro la terra di Policastro nel convicino della SS.ma Annunziata “nova”, confine la casa di detta Innocentia, la casa di D. Gio : Battista Favari “vallone mediante” ed altri confini, cioè si prometteva “la casa nova di abascio con il trappito conforme se ritrova”.  (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 052v-054).

12.07.1635. Davanti al notaro comparivano da una parte, Sanzone Salerno ed il Cl.o Honofrio suo figlio, dall’altra il R.do D. Joanne And.a Alemanno procuratore della SS.ma Annunziata “nova” di Policastro. Nell’anno passato 1634, detti di Salerno avevano venduto una loro casa palaziata che avevano comprato da Lucretia e Dianora Ceraudo ed Isabella Curto per il prezzo di ducati 25, posta dentro la terra di Policastro nel convicino della chiesa della SS.ma Annunziata, confine la casa degli eredi del quondam Berardo Lomoijo, la casa di Francischina Cavarretta e l’orto della detta chiesa lasciatole dal quondam Gio : Dom.co Apa “confinata al Casalino ditto lo trappito” appartenuto al quondam D. Scipione Curto. Detti di Salerno avevano venduto detta casa al R.do D. Gio : Battista Favaro che nel medesimo strumento, l’aveva rinunciata alla detta chiesa della SS.ma Annunziata.  (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 302 ff. 068-068v).

28.12.1655. Per consentirgli di ascendere all’ordine sacerdotale, Scipione Spinello di Policastro donava al Cl.co Giuseppe suo figlio, la “Casa Palaziata con Camera contigua cum uno trappito d’oglio abasso”, posta dento la terra di Policastro nel convicino della chiesa parrocchiale di S.to Nicola “de Greci”, confine la casa terranea del quondam Gio : Battista Favari, la via pubblica ed altri fini. (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 207v-208v).

[cxvii] 19.11.1604. All’eredità del quondam dottore Fran.co Ant.o Blasco, che in vita aveva abitato in convicino di S.to Petro, confine la via pubblica da tre lati, le case che erano appartenute al quondam Joannes Aloisio de Albo, la domus di Rosa de Caldararo ed alti fini, appartenevano un “palazzo”, un altro “palazzo piccolo di abascio via mediante” e “tre caselle piccole terrane” dentro cui una di esse, si trovava “un trappito di far oglio”. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro Policastro, Busta 78, prot. 286 ff. 71-76).

15.11.1616. Davanti al notaro compaiono Vespesiano Blasco di Policastro fratello del quondam Fran.co Antonio Blasco, tutore e “avo materno” di Andriana Leusi, figlia del quondam Fran.co Antonio Leusi, e Joannes Dominico Pantisano della città di Crotone, padre di Peleo Pantisano, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra il detto Peleo e la detta Andriana. Tra i beni appartenenti alla dote della sposa, vi erano: “le case palatiate” poste nella terra di Policastro confine le case di Gio : Vittorio Caccurio “cum il palazzetto” e confine le case del q.o Fran.co di Florio, una “casetta con il Trappeto da far oglio” stimata del valore di ducati 80 ed un’altra casetta confine “al detto Trappeto” stimata del valore di ducati 25. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 146v-155v).

23.07.1623. Alla dote di Antonella Grosso figlia di Lucretia Blasco, apparteneva un casalino posto dentro la terra di Policastro nel convicino di “Santo Petro”, che era stato lasciato dal quondam Vespesiano Blasco alla detta Lucretia, confine “lo trappito” del detto quondam Vespesiano e “lo piano di santo Pietro”.  (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 097v-098v).

12.02.1624. Davanti al notaro compaiono Caterina Faraco di Policastro “Virgine jn Capillo” e Joanne Dom.co Lanzo figlio di Antoni Lanzo, per la stipula dei capitoli relativi al loro matrimonio. Appartenevano alla dote una casa palaziata consistente in più membri, posta dentro la terra di Policastro nella parrocchia di S.to Nicola “delli greci”, confina le case di Gio : Vittorio Caccurio, “lo trappito” degli eredi della quondam Andriana Leusi, la via convicinale ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 010v-011v).

24.06.1626. Joanne Dom.co Lanzo di Policastro vende al presbitero D. Joanne Lanzo di Policastro, la domus palaziata con “Camera et Casalino Contiguo et Cortiglio” che deteneva come marito di Caterine Faraco, posta dentro la terra di Policastro nel convicino della chiesa parrocchiale di S.to Nicola “de grecis”, confine la domus di Joannes Vincenzo Ritia che era appartenuta a Joannes Vittorio Caccuri, la “ ripam dello Ringo”, il “trapitum” del quondam Fran.co Antonio Leusi, la via pubblica ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 044v-045v).

05.09.1630. Davanti al notaro compaiono Caterina Caccuri di Policastro vedova del quondam Fabritio Priamo e Fran.co Conmeriati di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Fran.co ed Angilella Priamo figlia di detta Caterina e del detto quondam Fabritio. Apparteneva alla dote della sposa, una casa palaziata confine l’altra casa di detta Caterina, confine “lo trappito” degli eredi di Andriana Leusi, “le timpe dello Ringo” ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 151v-153).

24.05.1636. Hijeronimo Chiaram.te di Policastro dona a suo figlio Francesco, alcuni beni tra cui una domus terranea confine la domus “seu trappito” di Laura Blasco, la domus di Joannes Dom.co Lanzo, le “ripas dittas lo ringo” ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 303 ff. 062-062v).

20.07.1638. Il notaro Gio : Battista Guidacciro si porta nella domus terranea di Antonella Grosso moglie del quondam Antonio Faraco, posta dentro la terra di Policastro nel convicino di S.to Petro, confine la domus di Caterina Caccuro, il casaleno di Laura Blasco detto “lo trappito”, la via pubblica ed altri fini, per compilare l’inventario dei beni appartenuti al defunto. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 305 ff. 064-064v).

10.10.1641. Mario Tronga di Policastro incanta nella “platea publica” di Policastro, una domus posta dentro la terra di Policastro, confine il “Tapetum” di Laura Blasco, la domus di Joannes Dominico Lanzo ed altri fini. (ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 801 primo, ff. 044-045).

14.02.1647. Il Cl.co Leonardo Caccurio di Policastro, negli anni passati, aveva acquistato da Maria Leuci della terra di Cutro, la domus terranea “cum trappito olei intus dittam domum” posta dentro la terra di Policastro nel convicino della parrocchia di S.to Nicola “grecorum”, confine la domus di Francisco Converiati, la domus di Julia Diamante, le “ripas nominatas lo Ringo” ed altri fini per il prezzo di ducati 30. Poiché tale prezzo era stato pagato con il denaro di detto Francisco Converiati, all’attualità il detto Cl.co Leonardo cedeva la detta domus e detto “trappetum” al detto Francisco per lo stesso prezzo. (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 011v-012v).

[cxviii] 14.11.1604. In occasione della stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra Joannes Thomas Cavarretta figlio del quondam Gregorio e Caterina Popaianni figlia del quondam Franceschello, apparteneva alla dote della sposa la metà della casa con “lo trappito”, confine Fran.co de Albo. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 68-69v).

08.10.1623. In occasione della stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra Caterina Popaianni di Policastro vedova del quondam Vespesiano Pantisano e Joanne Fran.co Callea di Policastro, appartenevano alla dote della sposa una casa palaziata con casalino contiguo posta dentro la terra di Policastro nella parrocchia di “santo Petro”, confine “le casalina” del quondam Ferrante Cerasaro, la via pubblica ed altri fini e la metà dello “trapito” che la detta Caterina deteneva in comune con suo fratello Vespesiano, posto dentro la terra di Policastro confine la casa di Blasio Rizza ed altri fini.  (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 110-111).

23.08.1624. Alla dote di Laurella de Albo figlia di Julia Ferraro, apparteneva una casa palaziata posta dentro la terra di Policastro detta “la casa vecchia”, confine “lo trappito” di Vespesiano Popaianni, la casa di Berardo Vecchio vinella mediante ed altri confini. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 061v-062v).

26.05.1634 Alla dote di Joannella Callea figlia di Caterina Popaianni, apparteneva la metà della “Casa, et trappito” posta dentro la terra di Policastro nel convicino di “santo petro”, confine la casa di Blasio Rizza, Gerolimo Amannito ed altri fini, mentre l’altra metà di detto “trappito” restava per i figli del quondam Vespesiano Popaianni. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 078v-080v).

02.01.1637. Negli anni passati, detta Caterina Popaianni, consegna alla figlia Joannella Callea ed al Cl.co Leonardo Arenda suo marito, diversi beni relativi alla dote di detta sua figlia, tra cui la metà di una “Casa terranea con trappito”, posta dentro la terra di Policastro nel convicino di “santo Petro”, confine la casa di Blasio Rizza, il vallone “delle Catarrate” e la via convicinale, mentre l’altra metà rimaneva ai figli ed eredi del quondam Vespesiano Popaianni. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 304 ff. 001-002).

[cxix] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 167-180.

[cxx] ASN, Regia Camera della Sommaria Patrimonio Catasti onciari, busta 6991.

[cxxi] Ibidem, f. 14 e ff. 110-111.

[cxxii] Ibidem, f. 139.

[cxxiii] Pugliese G. F., cit. p. 70.

[cxxiv] … Parte Quarta Italia Meridionale p. 139-141.

[cxxv] ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, busta 51 bis, fasc. 15 inc. 51 f. 6.

[cxxvi] ASN, Provvisioni e Cautele, vol. 294, 1698, f. 15.

[cxxvii] ASCZ, Catasto di Crucoli, f. 130v e 134v.

[cxxviii] Ibidem, f. 157-157v.

[cxxix] Pugliese G. F., cit. pp. 67-68.

[cxxx] Galanti G. M., Giornale di viaggio in Calabria (1792), Ed. Rubbettino 2008 pp. 43-44.

[cxxxi] Pugliese G. F., cit. p. 113.

[cxxxii] ASN, Informat.e del Relevio di D. Fran.co Campitello Principe di Strongoli per morte d’Aniballe suo f.llo seguita a 27 di Gennaro 1624, Relevi Vol. 383, F.s 29.

Nel gennaio 1745, l’eccellentissima “Casa di Strongoli” aveva in Melissa un beneficio curato di Jus Patronato di detta casa sotto il titolo di “S. Giacomo Apostolo Maggiore”, tra le cui rendite troviamo: “Più tiene alcuni pirzioni d’olive siti in diversi luoghi, e donano il frutto di un’anno per l’altro in can.te dieci oglio, che valutato a g(ra)na 20 la cannata d. 2:0.0” (ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, f. 1).

Il 02.09.1604, nel suo testamento, Polita Misiani di Policastro lasciava “una litra de oglio a sua matre ogni anno durante sua vita Cioè quello anno Carricherano”. (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro Policastro, Busta 78, prot. 286 ff. 47v-48v e ff. 49-50v).

[cxxxiii] Pugliese G. F., cit.  p. 90.

[cxxxiv] Ibidem,  pp. 77-78.

[cxxxv] Galanti G. M., cit. p. 44.

[cxxxvi] Pugliese G. F., cit. pp. 68-72.

[cxxxvii] L’uso del frantoio dotato di “petra” è documentato a Policastro in un atto del 26.05.1634, quando si dichiarava che sopra “lo trappito” di Caterina e Vespesiano Popaijanni, vi era un debito di ducati sette nei confronti di Gianni Serrano “per la petra di detto trappito li vendio”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 078v-080v.

[cxxxviii]       Il dialettale calabrese “nagghiere” o “nacheri” che indica il capo degli operai del frantoio, deriva da ναύϰληρος ossia capitano della nave. (Rohlfs G., Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria).

[cxxxix] Grimaldi D., cit. pp. 105-106.

[cxl] Pugliese G. F., cit. p. 72.

[cxli] Ibidem, p. 50.

[cxlii] Ibidem, p. 72.

[cxliii] Grimaldi D., cit. p. 67.

[cxliv] Ibidem, p. 82.

[cxlv] Ibidem, p. 68.

[cxlvi] Pesavento A., Vita economica di un convento cit..

[cxlvii] “ἤμηση ϰαννατης ελαδην”. Trinchera F., Syllabus Graecarum membranarum 1865 pp. 161-162 n. CXXI.

[cxlviii] Rohlfs G., cit.

[cxlix] “capisa olei” o “cafisa”. Anonymi Monachi Cassinensis Breve Chronicon, in Del Re G., Cronisti e Scrittori Sincroni Napoletani editi ed inediti 1845, vol. I p. 474 e nota p. 481.

[cl] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1852, Tomo II pars I pp. 361-364.

[cli] Rohlfs G., cit.

[clii] Relativamente al periodo 1486-87, il castello di Le Castella era approvvigionato di tutto il necessario per mantenere la sua guarnigione, tra cui 37 “libri” di olio (ASN, Dip. della Sommaria, Fascio 552 I^ Serie, f.lo 1, Cunto di Antonio de Jacobo). In relazione allo “Jus Catapanie”, il baiulo di Le Castella esigeva “p(ro) vendendo oleo exigit Dittus baiulus libram unam olei p(ro) qualibet summa”, dividendone i proventi a metà con il sindaco (AVC, Reintegra di Andrea Carrafa, 1518).

[cliii] ASN, Fs. 197 fslo 2, ff. 98, 120, 128, 145v, 159, 204; fslo 7, ff. 6, 67v, 100v, 110v; fslo 8, ff. 9, 26, 49, 156.

[cliv] L’apprezzo di Santa Severina del 1653 c’informa che “l’oglio viene da fuora e vale grana otto lo quarto” (AASS, 031A, f. 14), mentre quello del 1687 riporta: “l’oglio a carlini due la litra, la quale è di oncie 30; et a minuto si vende oncie quattro per un grano” (Siberene, p. 142).

[clv] Nel dicembre 1561, a Melissa risultava “Paghato per quindici cannate d’oglio quindici carlini comperato da giovanni de gennaro  1 – 2 – 10” (ASN, Libro V.a Ind.s 1561 fatto per le spese de Un.tà de Melissa Conti Comunali fs 199/5, f. 5v). Nel 1568 troviamo: “Li Cento Cannate d’oglio vechio a un Car.no la Cannata somma d. 10.0.0. Levando da questa rec.ta cannate 12 ½. Li Cento cannate d’oglio del p(rese)nte anno al med.o prezzo d.ti 10.0.0.” (ASCZ, Notaio C. Cadea, busta 6, f. 102).

[clvi] ASN, Informat.e del Relevio di D. Fran.co Campitello Principe di Strongoli per morte d’Aniballe suo f.llo seguita a 27 di Gennaro 1624, Relevi Vol. 383, F.s 29.

[clvii] ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, f. 1. Nell’annata 1737-38: “Prezzo di Cannate ottanta oglio d. 16.00” (ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, inc. 5 f. 4v).

[clviii] ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, inc. 30 ff. 40-42.

[clix] ASCZ, 15, 1578, 368-369.

[clx] AASS, 002B, ff. 13v-14.

[clxi] Maone P., Dominatori e Dominati nella Storia di Crucoli,  p. 68.

[clxii] Ibidem,  p. 85.

[clxiii] Nel 1638: “l’olio a grana 18 il militro, vale a dire ogni 33 ½ once grana 4 ½.” (Pugliese G. F., cit. p. 113).

[clxiv] “Il rotolo è di 48 once. Il miltro che si usa per la misura dell’olio è di 132 once (sic, ma 192 ndr), e la soma è di 40 miltri. La soma di Napoli è maggiore di quella di Cirò di 5 volte ed un terzo.” (Galanti G. M., cit. p. 52).

[clxv] Pugliese G. F., cit. pp. 63-72.

[clxvi] “Per l’olio la salma s’intende di 40 militri, ogni militro 4 rot. al 33 1/3. E siccome tal liquido sfrida, così nelle consegna a’ trappeti  vi si aggiunge il cosi detto abatto del 10 per 0/0, e la salma è di rot. 176. In piazza si dà solo il 5 per 0/0 dippiù, e nelle contrattazioni a minuto nulla.” (Pugliese G. F., cit. p. 85). L’ “Abbattim.o” del 10 % si ritrova anche a Melissa alla fine del Settecento (ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, inc. 30 f. 40).

[clxvii] 24.02.1606. Pompeo Tabernense ordinario servente della Curia di Policastro, su istanza di Fabio Ritia creditore, poneva all’incanto la domus di Joannes Dom.co Ferrari di Policastro, per il prezzo di ducati sei e mezzo “et decem, et otto litre oleii” alla ragione di grana ventiquattro la “litra” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro Policastro, Busta 78, prot. 286 ff. 155v-156).

05.09.1622. Sebastiano Jozzolino di Policastro donava a Paulo de Albo di Policastro “sette litre di oglio” che doveva conseguire da Fran.co Lico di Mesoraca, alla ragione di “Carlini sei per ciascheduna litra” (ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294 ff. 041-042).

10.04.1644. Nel suo testamento, Joannes Baptista Callea confermava il lascito di una “litra d’oglio” per ogni anno sopra le olive di “Comito”, fatto da suo zio Aniballe al monastero di S.ta Maria della Spina, conformemente all’accordo fatto con i monaci del detto monastero. (ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 307 ff. 046v-048.

27.10.1654. “duarum mensurarum olei vulgo nuncupatarum litra” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, f. 146v).

[clxviii] “litre cinquanta d’oglio di valore di d.ti sei” (AASS, 033A, f. 125v). “car. 20 p(er) diece litre d’oglio” (AASS, 034A, f. 35v)

[clxix] Alla metà del Cinquecento, troviamo a Cirò: “una lancella de oglio de circa militri dui” (ASCZ, Notaio C. Cadea, busta 6, f. 8v), “una giarra di oglio di militri vinti” (Ibidem, f. 33v), “una giarra vacua de oglio grande unaltra giarrotta de oglio con otto pignatelle d’oglio” (Ibidem, f. 225) e “una giarrotta piena de oglio de sei militri et in unaltra giarrotta tre, e unaltro poco doglio” (Ibidem, ff. 312-312v).

26.08.1624. Joanne Antonio Jannici di Policastro marito di Cassandra Furesta di Policastro, asseriva di aver ricevuto per la dote promessagli, alcuni beni tra cui “una ciarra di tener oglio”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 064v-065.

  1. 03.06.1639. In occasione della compilazione dell’inventario dei beni del quondam Camillo Campana, risultavano “due lancelle di oglio vacanti”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 306 ff. 057-058v.

Alla fine del Settecnto a Cirò, “I vasi per conservar l’olio si fanno a Calopizzati.” (Galanti G. M., cit. p. 53).

[clxx] Relativamente al periodo 1486-87, tra le stoviglie della cucina castello di Le Castella risultava una “fressura”. ASN, Dip. della Sommaria, Fascio 552 I^ Serie, f.lo 1, Cunto di Antonio de Jacobo.

[clxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287 f. 209v.

[clxxii] Alla metà del Settecento, i frati del convento di S. Francesco di Paola di Roccabernarda acquistano olive fatte al forno (Pesavento A., Vita economica di un convento cit.).

[clxxiii] 17.11.1605. In occasione della compilazione dell’inventario dei beni appartenuti al quondam Vespesiano Zupo, tra le altre cose, nel “Catoio” si ritrovano: “tre altri quarti di olive” e “una litra et meza di oglio” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 147v-148v).

30.01.1615. Nell’inventario fatto compilare da Lucretia Lamantia, risultano “due lancelle di oglio Cioè tener oglio” e “una tina piccola per tener olive”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 005v-009.

[clxxiv] Nel luglio del 1676, Cola Fiorentino ricorreva all’arcivescovo, contro quanti avevano rubato nella sua casa e nella sua bottega in Santa Severina, tanto denari, quanto “casicavalli salato oglio et ogni altra cosa commestibile” (AASS, 003D fasc. 1).

[clxxv] 20.07.1624. In occasione della compilazione dell’inventario dei beni appartenuti al quondam dottore Joannes Agostino de Cola di Policastro, tra le robbe mobili presenti nella sua casa risultavano: “una Ciarra grande di tener acqua, et una altra di tener oglio vacua”, “due frissure vecchie” e “due lucerne d’oglio pendenti di ferro una grande et una piccola”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 040v-054.

[clxxvi] Cosentino A., cit., p. 138.

[clxxvii] Ibidem.

[clxxviii] Grimaldi D., cit. p. 114.

[clxxix] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 039v-041. Annualmente, la Cappella del Venerabile Ospedale di Crucoli spendeva in “Olio p(er) la lampada mil. 12 annui d. 3:60” (ASCZ, Catasto di Crucoli, f. 256).

[clxxx] AASS, 037A.

[clxxxi] ASV, Rel. Lim. Crotonen. 1597.

[clxxxii] Grimaldi D., cit. p. 34.

[clxxxiii] Alla metà del Cinquecento a Crotone, per “untare la rota” figurano numerosi acquisti di “sivo” venduto in “rotoli” (ASN, Fs. 197 fslo 2, ff. 145v, 159, 204, 215v; fslo 7 ff. 67v, 70, 76v, 94v, 105, 117, 155, 163v; fslo 8, ff. 6, 45, 94, 96, 131v, 160) e di “oglio” venduto in “quarti” (ASN, Fs. 197 fslo 2, ff. 98, 120, 128, 145v, 159, 204; fslo 7, ff. 6, 67v, 100v, 110v; fslo 8, ff. 9, 26, 49, 156).

[clxxxiv] Grimaldi G., cit. p. 108.

[clxxxv] ASCZ, Notaio Campanaro G. F., busta 69, prot. 218 ff. 3-4.

[clxxxvi] ASCZ, 914, 1756, 98-100.

[clxxxvii] AVC, Reintegra di Andrea Carrafa, 1518.

[clxxxviii] La documentazione medievale c’informa che nel periodo svevo-angioino, l’olio era soggetto al pagamento dello “Ius exiture olei”. Diritto che doveva essere corrisposto dal compratore che voleva estrarre l’olio “extra Regnum” e che ammontava a 10 tari, “pro quolibet miliare quod miliare est starum XL ad starum Bari” se questi era regnicolo mentre, diversamente, il pagamento saliva a 15 tari. Accanto a tale diritto, l’olio era soggetto al pagamento “pro Iure funditagii seu casatici”, alla ragione di 15 grana per ogni oncia di valore ed alla Dogana: “Et pro Iura dohana tari X” (Dalena P. (a cura di), Mezzogiorno Rurale Olio, vino e cereali nel Medioevo, 2010 p. 103).

[clxxxix] AASS, 002B, ff. 13v-14.

[cxc] ASCZ, 15, 1578, 368-369.

[cxci] ASCZ, Not. Gio. Fran.co Rigitano 49, 1591, ff. 71-76.

[cxcii] Maone P., Dominatori e Dominati nella Storia di Crucoli, p. 62.

[cxciii] Ibidem, p. 68.

[cxciv] ASCZ, Catasto di Crucoli, f. 299.

[cxcv] “A Cariati i diritti di estrazione sull’olio sono minori che negli altri luoghi della contrada.” (Galanti G. M., cit. p. 53).

[cxcvi] ASN, Relevi vol. 356, Fs. 10.

[cxcvii] Nel documento é riportata anche l’informazione che per atto di Nicola Stricagnolo del 30 maggio 1549, Battista e Gio. Gregorio Cannati vendettero a Gio. Battista Campetiello due terzi dell’oliveto Aloneggia situato in località S. Biase per il prezzo di Ducati 20. L’altro terzo apparteneva al fratello Raniero Cannati (ASN, Informat.e del Relevio di D. Fran.co Campitello Principe di Strongoli per morte d’Aniballe suo f.llo seguita a 27 di Gennaro 1624, Relevi Vol. 383, F.s 29).

[cxcviii] Pesavento A., La città del principe Francesco Campitelli, La Provincia Kr nr. 50/2000.

[cxcix] ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, inc. 5 f. 3.

[cc] Ibidem, f. 4v.

[cci] Ibidem, f. 5v.

[ccii] Cosentino A., cit., pp. 137-138.

[cciii] ASN, Archivio Ferrara Pignatelli, fasc. 15, inc. 30 f. 32v.

[cciv] Ibidem, ff. 40-42.

[ccv] ASV, Rel. Lim. Umbriaticen., 1735.

[ccvi] Pesavento A., L’abitato di Alichia, la foresta regia ed il palazzo Alitio, La Provincia KR nr. 19-20/1998.

[ccvii] Spizzirri M., Rocca di Neto nel Catasto del 1742, 1995 p. 214.

[ccviii] Pesavento A., Poligrone, Marrio seu Agromoleto e Gipso, La Provincia Kr nr. 46-48/2007. Petrusewicz M., Latifondo, p. 233.

[ccix] ASCZ, 664, 1732, 38-43.

[ccx] ASCZ, 1343, 1770, ff. 76-81.

[ccxi] Pesavento A., Il Casino di Giammiglione, La Provincia Kr nr. 13-14/2005.

[ccxii] Pesavento A., Origine e Sviluppo di Isola, La provincia KR nr 43-49/2000.

[ccxiii] Pesavento A., Vicende degli Sculco e del loro palazzo di Crotone, La Provincia Kr nr. 16-17/1999.

[ccxiv] Galanti G. M., cit.

[ccxv] Ibidem, p. 56.

[ccxvi] Ibidem, p. 57.

[ccxvii] Ibidem, pp. 43-44.

[ccxviii] Ibidem, p. 53.

[ccxix] Ibidem, p. 50.

[ccxx] Ibidem, p. 53. Gli atti del catasto onciario di Melissa del 1742, evidenziano che a quel tempo, gli oliveti occupavano solo l’1,9 % della superficie dichiarata ed erano coltivati soprattutto ai piedi dell’abitato (Cosentino A., cit., pp. 137-138).

[ccxxi] Ibidem, p. 56.

[ccxxii] Ibidem, p. 58.

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